Al termine dell’incontro con la delegazione cinese giunta a Washington per l’ultimo round di colloqui sul commercio, Donald Trump ha annunciato che la scadenza del 1° marzo per l’aumento dei dazi dal 10 al 25% su 200 miliardi di dollari di beni “made in China” verrà prolungata. Non solo: parlando di “sostanziali progressi” con Pechino, il presidente Usa ha ribadito che vorrebbe incontrare prossimamente il suo omologo cinese, Xi Jinping, in Florida, per cercare di concludere un accordo. Se tutto andrà bene, ha aggiunto, ci saranno “grandi notizie entro una settimana o due” sulle dispute tariffarie: “Vogliamo fare un accordo che sia grandioso per entrambi i Paesi ed è davvero quello che stiamo facendo”. Trump, insomma, si mostra ottimista. Ma è un ottimismo condivisibile? “E’ un buon risultato – risponde Francesco Sisci, esperto di Cina – soprattutto per Xi, che ha preso direttamente in mano la situazione, scavalcando primo ministro e ministero degli Esteri cinese, che prima gestivano le relazioni con gli Usa”.
Perché parla di un buon risultato soprattutto per Xi Jinping?
Perché Xi può portare un risultato insperato alla sessione plenaria del parlamento cinese, il National People’s Congress (Npc), che si aprirà il prossimo 5 marzo. Difficile sarebbe stato vendere qualunque accordo ai 3mila uomini più potenti della Cina, molti dei quali con il dente avvelenato contro Xi. Ma nella sostanza è solo un rinvio. Evitando, però, la tagliola dell’Npc, Xi può costruire un nuovo consenso interno attorno alla strategia dei prossimi mesi.
I progressi – come ribadisce l’agenzia di stampa cinese – oltre che sulle “barriere tariffarie, il settore dei servizi, l’agricoltura e i tassi di cambio” si sono registrati anche sul fronte del trasferimento tecnologico e della protezione dei diritti della proprietà intellettuale. Se i colloqui dovessero andare a buon fine, potrebbe cambiare qualcosa anche nell’atteggiamento Usa verso aziende cinesi, come Huawei, che gli americani considerano pericolose per la loro sicurezza interna?
I nodi di fondo restano. Lo scontento americano contro la Cina è orizzontale: c’è il commercio, il timore strategico di essere superati dal punto di vista militare ed economico, ci sono i diritti umani, le questioni religiose, le questioni politiche, le iniziative cinesi nel Mar Cinese meridionale, in Africa o in Venezuela. Insomma, mancano punti di accordo, e quello sul commercio è solo un compromesso minimo. Se non si arriva a un’idea cinese di come affrontare questo scontento americano a 360 gradi, sarà difficile sperare in una “pace perpetua”. La tecnologia e il 5G sono i punti nevralgici di tutto, perché è un cambio di qualità tecnologico con un mercato potenziale che vale migliaia di miliardi, e che ha dei risvolti militari: proprio su questa piattaforma potranno girare tanti sistemi offensivi e difensivi. Qui, banalmente, se non c’è grande fiducia, non vedo come Usa e Cina possano stare insieme.
E’ da tempo che i due Paesi vanno avanti con dialoghi e confronti, ma si continua a rinviare un accordo definitivo, quasi faccia comodo a entrambi. Come stanno realmente le cose?
Entrambi volevano un rinvio. Le ragioni della Cina le abbiamo ricordate, quelle dell’America sono due, credo.
Quali?
Trump vuole dare respiro ai mercati, perché è spaventato dall’idea che un crollo degli indici azionari accompagni un crollo dei suoi indici di popolarità, già oggi non al massimo. Inoltre gli Stati Uniti sono scontenti della Cina, anche se ancora non hanno deciso che strategia adottare davvero. Quindi un po’ di tempo in più torna comunque utile per ragionare.
Sono tanti i nodi che restano da sciogliere?
La lista è lunga e di fatto richiede un cambiamento radicale del sistema economico cinese: niente sussidi alle imprese di Stato e libero accesso al mercato per le imprese americane. Tutto questo significa una rivoluzione copernicana.
Ma la Cina è pronta a questo? E che costi politici interni comporterebbe una tale decisione?
Il problema sarà davvero capire se e fino a che punto le due parti vorranno venirsi incontro. Il problema di fondo, però, resta la sfiducia verso la Cina che si respira in America. Qui non è più solo questione di parole. Gli americani vogliono risposte sostanziali su tanti fronti: dall’economia, al commercio, al militare. Se la Cina non affronta la questione in modo radicale, sciogliere un solo nodo potrebbe tradursi nell’aggrovigliarne altri.
Allentare la tensione commerciale, quindi, non vuol dire migliorare i rapporti con la Cina anche sul fronte geo-politico e militare?
Purtroppo su questi temi non ho visto un allentamento, bensì una radicalizzazione in tempi recenti. Il segretario del dipartimento di Stato, Mike Pompeo, ha intimato ai “300mila pescherecci” della flotta cinese di tenersi a debita distanza. Saranno, cioè, trattati come navi militari e affondati qualora tentassero di interferire con le rotte di navigazione della flotta americana.
E l’Unione Europea, in tutto questo, rischia di essere penalizzata? In che modo è condizionata dalla partita in corso?
Noi dovremmo avere un ruolo come Ue e dovremmo anche cercare di capire cosa fare. L’assenza su questo terreno, come Italia e come Ue, di una posizione forte e ben ragionata è prova solo della nostra debolezza.
(Marco Tedesco)