Monsignor Natale Paganelli è un vescovo missionario. Mi riceve nella sua umile casa di Makeni, in Sierra Leone. E’ un piccolo chalet recintato e polveroso in mezzo a un quartiere che qui passa per essere da classe media. Ci apre il cancello del parcheggio un uomo con un braccio amputato, un segno abituale per tutti quelli che hanno vissuto la sanguinosa guerra civile (1991-2001). Mi dà il benvenuto il vescovo in persona, mi offre una bibita e mi conduce in un salone che, per mobili e decorazioni, sembra degli anni Cinquanta in Europa. Tuttavia, è un paradiso: c’è l’aria condizionata.
Il vescovo è nato in una famiglia molto religiosa della Lombardia, in provincia di Bergamo, e ha scoperto la sua vocazione durante la scuola, dopo una conferenza di un sacerdote saveriano. Decise che voleva essere come lui ed entrò nel seminario di questa congregazione, venendo ordinato sacerdote nel 1980. Venne destinato al Messico, dove rimase per 22 anni e divenne superiore. Terminato il suo periodo in Messico, chiese di andare in Africa, un sogno che aveva fin da bambino. Gli fu concesso e venne mandato a studiare a Londra, prima di arrivare in questa diocesi nel nord del Paese, fondata dagli stessi saveriani, e per due anni operò come missionario nella zona di frontiera con la Guinea. Nel 2007 fu nominato superiore della Congregazione in Sierra Leone e da allora risiede a Makeni.
La situazione di questa Chiesa si complicò nel 2012, quando il Papa nominò un vescovo a Makeni che non poté prendere possesso della diocesi per l’opposizione di sacerdoti e fedeli, per motivi etnici e regionali. Monsignor Paganelli fu nominato amministratore apostolico della diocesi, nomina confermata nel 2015 da Papa Francesco.
Come ha vissuto, alla fine, il suo sogno, l’Africa, dopo tanto tempo in Sudamerica?
Quando sono arrivato in Sierra Leone come missionario mi è stato difficile adattarmi. Il Messico, nell’altipiano centrale, ha un clima splendido, qui invece il caldo e l’umidità sono estremi. Inoltre, mi ha colpito la povertà e finché non si viene a vivere qui non ci si rende conto della situazione. Ciò che più mi ha rattristato è stato vedere come tanti bambini morivano perché non avevano i 5 euro necessari per il trattamento della malaria. Una situazione che continua ancora oggi.
Che situazione politica ha trovato, arrivando qui dopo la guerra civile?
La problematica politica è molto presente: il Paese è diviso in due, tra Nord e Sud-Est, una divisione etnica e regionalista. Ci sono fondamentalmente due partiti, ciascuno dei quali rappresenta una delle due parti. Una divisione che, purtroppo, si ritrova anche nella Chiesa.
Com’è la convivenza tra le diverse religioni con una maggioranza musulmana?
C’è tolleranza religiosa, anche se si comincia a sentire l’arrivo dell’integralismo islamico: stanno arrivando imam formati in Mali ed è sempre più comune vedere donne con il velo o il burqa, cosa che qui non era usuale.
Come vede la fede cattolica nella sua diocesi?
E’ una Chiesa molto giovane. Qui l’evangelizzazione sistematica è iniziata negli anni 50 e non vi è ancora una Chiesa matura, i valori cristiani non sono ancora arrivati alla radice del popolo della Sierra Leone. Diciamo che ci stanno arrivando: abbiamo famiglie cristiane, anche se poche sono state sposate in Chiesa.
Perché non fanno questo passo?
Ci sono questioni economiche che non aiutano, perché non possono pagare un matrimonio, con festa e dote. Ci sono anche fattori culturali e sociali che rendono difficile il matrimonio cattolico. Sanno che la Chiesa non accetta il divorzio e preferiscono non sposarsi per non trovarsi fuori se dovessero divorziare, una cosa che qui è molto probabile che succeda.
Quali difficoltà evidenzierebbe tra quelle che vivono i suoi fedeli e il resto degli abitanti della regione?
Una delle piaghe sociali è la disoccupazione. Migliaia di nostri alunni terminano gli studi nella nostra università, la University of Makeni, però pochi trovano un lavoro, malgrado la loro voglia di imparare. Per questo il loro futuro rimane al di fuori del Paese e pochi riescono a ottenere qui qualcosa dai loro studi.
Perché c’è così poco lavoro?
La nostra economia è ferma, nelle banche non vi è denaro, il prezzo di molte materie prime di cui siamo molto ricchi è fissato dal di fuori. Secondo un rapporto che ho letto, per esempio, in Sierra Leone rimane solo il 2% del valore dei diamanti che esportiamo. Qui non si produce niente, importiamo tutto. I cinesi hanno costruito strade, il che va bene, ma nessuno sa a che prezzo, perché c’è molta corruzione tra i responsabili politici. Viviamo in un’economia di sussistenza bloccata in un circolo vizioso.
Per l’Occidente la Sierra Leone è uno dei luoghi dell’Africa dove da alcuni anni sono stati segnalati ripetuti focolai di Ebola. Cosa rimane di tutto questo?
Ora abbiamo meno paura dell’Ebola, perché sappiamo come controllarlo e non è tanto difficile prevenirlo. La malattia si contrae solo se si entra in contatto fisico con una persona infetta che già mostra i sintomi. Occorre quindi evitare questo contagio.
E’ rimasta nel Paese qualche conseguenza di questa terribile malattia?
L’esplosione di questa malattia fu una tragedia. In primo luogo perché causò la morte di 5mila persone, lasciando molti orfani. E poi, perché lasciò a pezzi l’economia del Paese: le miniere di ferro sono ancora chiuse, diverse fabbriche non hanno riaperto e molti sono espatriati.
La Sierra Leone, Paese che conta solo 7 milioni di abitanti, forse non è nell’Africa sub-sahariana tra i maggiori esportatori di migranti. Tuttavia, secondo lei perché tanti africani vogliono venire in Europa?
Vi è molta povertà, però non è necessario essere povero per andarsene da qui. In Sierra Leone si vive male e quelli che se ne vanno desiderano vivere meglio. Nessuno vuole abbandonare il proprio Paese se non per necessità. Noi missionari lo facciamo per un ideale, ma il mio Paese mi resterà nel cuore per sempre. Comunque è vero che qui non sono tanti quelli che se ne vanno, come invece in Gambia. Qui i chioschi disseminati per tutto il Paese e la vendita ambulante dà ogni giorno da mangiare a molta gente.
Che ruolo hanno gli emigrati nell’economia del Paese?
Una delle grandi fonti di reddito della Sierra Leone proviene da loro. Molte delle case che vede qui attorno sono state costruite con il denaro inviato ogni mese da quelli che se ne sono andati. Sono un polmone per il Paese, anche se di fatto molti di loro vorrebbero ritornare.
Secondo lei, perché sta crescendo in Europa la sensazione, che si manifesta nelle urne e nei populismi, che l’immigrazione sia un problema?
L’immigrazione è sempre stata un problema: negli Stati Uniti lo furono gli italiani, gli irlandesi o i polacchi. Molti Paesi si sono aperti per necessità, perché avevano bisogno di manodopera, non per amore per il prossimo. E’ vero che molti Paesi europei hanno un’alta disoccupazione, però è altrettanto vero che molti dei loro abitanti, come in Italia, non vogliono svolgere certi mestieri. Questi poveri che migrano sanno che lì questi lavori sono disponibili.
Perché buona parte della popolazione italiana è tanto contraria all’immigrazione, diventata uno dei grandi cavalli di battaglia della politica attuale?
Credo che ora anche in Italia vi sia paura del profugo sub-sahariano, ma in Italia ci sono anche molti rumeni e albanesi, alcuni di loro legati alla delinquenza, come la stessa mafia italiana. Tuttavia, i media non parlano tanto di loro, credo perché il colore della pelle fa paura. Questo è un problema che dobbiamo superare.
Come si spiega questa emarginazione dell’immigrato da parte dei politici, senza che la Chiesa e la gente perbene non si levi contro l’ingiustizia?
Il vertice della Conferenza episcopale italiana si oppone con chiarezza alle misure politiche contro la vita degli immigrati. Per quanto riguarda il popolo, vi è chi protesta, ma il problema è che hanno creato una narrazione nei mezzi di comunicazione secondo la quale gli immigrati vengono a prendere i nostri posti di lavoro. Io continuo a vedere post su Facebook e a ricevere messaggi di conoscenti dall’infanzia che mi fanno vergognare. Persone battezzate come me e che parlano con un razzismo incredibile.
Ha detto che molte persone in Italia e in Europa non vogliono più svolgere certi mestieri. Quale sarebbe la soluzione?
Ogni Paese europeo dovrebbe essere capace di stabilire quanti stranieri possono lavorare sul suo territorio. Così, i migranti uscirebbero dai loro Paesi di origine con i documenti in regola, con un permesso di residenza e di lavoro. Ovviamente, nei Paesi di destinazione dovrebbe esistere una struttura di integrazione preparata per loro, come per esempio in provincia di Bolzano.
Non le pare un po’ utopico?
E’ quanto sta accadendo in Giappone: ultimamente ha richiesto 350mila lavoratori, indicando i Paesi che potevano far richiesta dei posti di lavoro. E’ quanto ha fatto il Canada. Quando ero in Messico ho verificato come funzionava: davano visti temporanei per lavorare sei mesi nella pesca, permettendo così di guadagnare quanto permetteva di vivere bene gli altri sei mesi a casa loro.
Papa Francesco pone molta enfasi sull’importanza dell’accoglienza degli immigrati, anche se spesso sembra il profeta che predica nel deserto. Perché questa insistenza?
Nell’immigrato si può recuperare la fede perduta, perché in colui che arriva c’è il Signore. Questa è teologia di base. La Chiesa è il corpo mistico di Gesù, però Lo si incontra nel fratello che soffre, in chi sta in carcere, sulla strada, nel più bisognoso, nel migrante, nel tuo fratello di sangue, con il quale non parli… Qui è il vero Cristo ostacolato da una Chiesa autoreferenziale. Uno non può dire di essere veramente cristiano se non accoglie chi bussa alla sua porta.
(Jorge Martínez Lucena)