Dopo il blackout elettrico, che da 24 ore è durato una settimana, Maduro è tornato alla ribalta con un discorso nel quale ha, come da copione, dichiarato che il guasto è stato provocato da un attacco cybernetico imperialista. Come rappresaglia ha dapprima accusato Guaidó, quindi ha arrestato il giornalista Luis Pablo Diaz, accusandolo di essere tra i protagonisti della tragedia, come istigatore al delitto. Successivamente gli sono stati imposti i domiciliari, con il divieto di lasciare il Paese e di fare dichiarazioni pubbliche.
Il ritorno alla normalità viene mostrato come una vittoria del popolo nei confronti dell’imperialismo, mentre la realtà parla di un Paese che non riesce più nemmeno a gestire l’energia e garantirne la distribuzione. Primo produttore mondiale di petrolio, ma costretto a importarlo perché, dopo che la russa Lukoil ha congelato ben 17 miliardi di dollari di contratti per la raffinazione del greggio, il Venezuela non ha altre fonti per trasformare la materia prima nei suoi derivati, il Paese è arrivato alla tragedia energetica totale.
Nel frattempo emergono altri particolari, a dire il vero un po’ datati, ma che mostrano come la nazione sia in una crisi purtroppo senza ritorno da tempo. Argentina e Uruguay da anni riforniscono di latte il Venezuela attraverso le loro imprese, ma in questi tempi si scopre come le stesse siano ormai fallite per il mancato pagamento delle forniture.
Insomma, un Paese sull’orlo del collasso totale, mentre l’opposizione, dopo il sostanziale fallimento del fatidico 23 febbraio, giorno in cui doveva iniziare a muoversi la catena degli aiuti per l’emergenza, successivamente bloccata da Maduro, si sta organizzando per promuovere manifestazioni di massa. Il Presidente ad interim Guaidó a questo punto sembra orientarsi verso questa tattica per ovvi motivi. In primo luogo perché, nonostante tutti gli sforzi possibili, la diplomazia internazionale, anche attraverso manovre d’embargo, non è riuscita a risolvere molto della tragedia venezuelana. Scartato del tutto l’intervento militare, seppur invocato dagli Usa (ma basta vedere come le minacce alla Corea del Nord alla fine si sono trasformate in una relazione che, tra alti e bassi, pare fraterna), non è rimasta altra fonte che una protesta popolare di massa che, unita alla crisi energetica, possa finalmente risolvere l’intricata situazione.
Come accaduto già due anni fa nel corso delle “trattative” con il Mud, il tavolo di unità democratica, a cui partecipò pure la Chiesa e terminate in una burla del dittatore, Maduro evita qualsiasi tipo di dialogo proseguendo per la sua strada, senza far nulla ma prendendo tempo.
In questo eterno gioco del gatto con il topo, però, i tempi stringono, fatto dovuto alla crisi energetica: sebbene il dittatore goda, sulla carta, di un appoggio di circa il 30% della popolazione, frutto in gran parte del ricatto alimentare (come sempre succede nei populismi, dove le sovvenzioni si trasformano in voti) e di quello dell’esercito (e anche lì con mezzi non proprio etici), il protrarsi della crisi, con il 70% della gente con l’opposizione, unita da quel collante poderoso che è la tragedia attuale, può, nel caso di manifestazioni di massa, mettere veramente il dittatore con le spalle al muro.
A questo punto i casi sono due: elezioni subito, dove però, in assenza di brogli, perderebbe e così si aprirebbero per l’ormai ex regime le porte dei tribunali internazionali (oltre a quelli locali), con i rischi che è facile intuire, oppure trattare con Guaidó una fuga dorata e poter passare il resto dei suoi giorni in un comodo esilio.
Il tempo stringe, come pure la crisi, che rischia di esplodere anche se il potere di adattamento a situazioni estreme è una caratteristica molto comune nel continente latinoamericano.