Le recenti elezioni israeliane sono state caratterizzate dal confronto tra il Likud, storico partito di centrodestra ora guidato da Netanyahu, e Blu e Bianco (riferimento ai colori della bandiera israeliana), coalizione centrista di tre partiti, formata pochi mesi prima delle elezioni e guidata dall’ex generale Benny Gantz. La nuova formazione era data vincente nei sondaggi preelettorali, ma il risultato è stato di 36 seggi al Likud e 35 a Blu e Bianco, con una concentrazione di voti superiore alle elezioni del 2015. Allora si era registrata anche una maggiore affluenza, 72% contro l’attuale 68%, decremento almeno in parte dovuto alla minore partecipazione degli arabi israeliani. I restanti 49 seggi sono stati divisi tra nove liste, con due partiti ultraortodossi al terzo e quarto posto, rispettivamente con 8 e 7 seggi, uno ciascuno in più rispetto ai precedenti. I due partiti che si rifanno alla minoranza araba hanno conquistato 10 seggi, mentre i laburisti sono crollati a 6 seggi.
Questi dati diverranno definitivi solo con la presentazione al Capo dello Stato, il prossimo 17 aprile, e potrebbero quindi essere ritoccati. Ad esempio, la Nuova Destra, esclusa dalla Knesset per essersi fermata al 3,22% dei voti, non raggiungendo così il minimo richiesto del 3,26%, pari a quattro seggi, è in procinto di presentare ricorso. Più grave, come riporta Haaretz, è l’accusa al Likud di aver messo videocamere nascoste nei seggi in cui votavano gli arabi israeliani, una violazione del segreto di voto che ha portato alle denunce in corso alla magistratura.
I risultati delle elezioni rispecchiano una società estremamente frazionata, un Paese così descritto in un articolo apparso su The Times of Israel: “…diviso tra ebrei e arabi; ebrei di origine europea e quelli provenienti dal Medio Oriente; tra chi abita in metropoli laiche e tecnologiche come Tel Aviv e chi abita in polverose e periferiche città, tra gli insediamenti del West Bank e la capitale conservatrice Gerusalemme”. Si spiega così il successo del Likud e dei suoi alleati confessionali e di destra nei centri piccoli e periferici, negli insediamenti in Cisgiordania e a Gerusalemme “dove la popolazione è povera e religiosa”. Così come il successo di Blu e Bianco a Tel Aviv, prospero centro commerciale e culturale, e in altri centri prevalentemente abitati da professionisti e altri ceti influenti.
Il programma di Gantz non era poi così decisamente opposto a quello di Netanyahu, anzi, proprio questo viene ora evidenziato come uno dei fattori che non lo hanno fatto vincere: al dunque, molti elettori pur insoddisfatti di Netanyahu hanno ritenuto più sicuro votarlo, anche per l’inesperienza politica di Gantz. Netanyahu, come riporta Haaretz, aveva poi attaccato pesantemente gli avversari, accusandoli di fiancheggiare i partiti arabi che “vogliono distruggere lo Stato di Israele”.
Gli israeliani hanno votato Netanyahu malgrado contro di lui siano stati avviati tre procedimenti giudiziari per corruzione, ma è difficile che ciò induca la magistratura a sospendere la sua azione. “Bibi” sembra perciò intenzionato a far approvare al più presto provvedimenti legislativi che gli concedano l’immunità, cosa che potrà forse ottenere, ma con gravi concessioni ai partiti confessionali e di destra, necessari e per far passare queste leggi e per riporlo a capo del governo.
Queste elezioni segnano una battuta d’arresto, se non un definitivo accantonamento, della soluzione dei “due Stati” per la questione palestinese, una formula che Netanyahu ha esplicitamente ridimensionato nella campagna elettorale. Visto il suo buon risultato elettorale, la sensazione è che la maggior parte degli israeliani sia ora molto fredda sulla questione, soprattutto sulla rinuncia agli insediamenti nella West Bank. In questo modo, però il futuro Stato palestinese verrebbe pesantemente ridimensionato.
L’attesa è ora per il cosiddetto “Accordo del Secolo”, il fantomatico piano annunciato da Trump un anno fa e la cui pubblicazione era stata rinviata a dopo le elezioni. Da quel poco che è trapelato, il piano dovrebbe essere più vicino alle posizioni di Netanyahu che a quelle dei palestinesi, dai quali è già stato comunque rifiutato. Peraltro, lo stesso Trump ha a suo tempo sottolineato che l’appoggio di Washington a Israele deve avere una contropartita anche per i palestinesi. Tanto più dopo il pesante sostegno elettorale a Netanyahu, con il riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele e dell’annessione israeliana del Golan.
Il danno maggiore ai palestinesi è dato, tuttavia, dalle loro divisioni interne, che rendono di per sé non ipotizzabile un unico Stato palestinese, dato che è difficile immaginare una convivenza tra Fatah, che governa i Territori, e Hamas, leader a Gaza. La Striscia è già uno Stato palestinese, che Israele potrebbe riconoscere se, a sua volta, Hamas decidesse, o fosse portata a decidere dai suoi sostenitori esterni, di riconoscere definitivamente lo Stato di Israele. Il vero problema palestinese è nell’Autorità Palestinese e nei Territori che governa, dove Israele è deciso a mantenere una presenza consistente con gli insediamenti. Si riaffacciano, quindi, le ipotesi di confederazione, o con la Giordania o addirittura con lo stesso Israele.
Una nota per terminare. Si è parlato in modo critico da più parti per la lunga permanenza al governo di Netanyahu, ma sarebbe giusto far notare anche che Mahmud Abbas è presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese da 14 anni, cioè dal gennaio del 2005, ma da allora non si sono più svolte elezioni presidenziali.