Dopo aver dato il loro aiuto ad abbattere Gheddafi, gli Stati Uniti si sono defilati dallo scenario libico, rifiutando un coinvolgimento significativo. Suonano così importanti le parole che Donald Trump ha rivolto nelle ultime ore al generale Haftar dicendogli che in Libia servono la pace e la stabilità. Un invito a fermare l’attacco o un via libera definitivo? Che significato abbia il messaggio di Trump ce lo ha spiegato l’inviato del Corriere della Sera Massimo Gaggi, con cui abbiamo anche discusso del problema dei dazi con la Cina e della situazione interna relativa alla ormai quasi prossima campagna elettorale presidenziale.



Haftar mantiene relazioni anche in America dove è stato in passato per molti anni. Che significato ha il monito che gli ha rivolto Trump?

Non è possibile dire se si tratti da parte sua di una scelta di campo tra Haftar e Serraj, in politica estera Trump ha sempre mantenuto atteggiamenti ondeggianti. Haftar è personaggio inaffidabile: in questa ultima fase si è mosso con l’appoggio degli egiziani, i quali a loro volta hanno ottenuto il benestare di Mosca. Non è possibile attribuire al presidente americano una scelta di campo, anche perché in politica estera dipende ormai da John Bolton.



Dunque solo un avvertimento e niente di più?

Considerati gli errori di immagine che ha commesso Haftar attaccando città con le quali si è inimicato gran parte della popolazione civile e con la resistenza che sta mettendo in campo Serraj, credo che, anche se Trump non ama le Nazioni Unite e in teoria non dovrebbe dare credito a Serraj che è appoggiato dalla comunità internazionale, visto che ha detto più volte che l’Italia è suo grande alleato e che il nostro paese è quello che deve occuparsi della Libia, dovrebbe stare con Tripoli.

Come si spiega questa scelta?

Haftar negli ultimi tempi non si è certo guadagnato l’approvazione del Pentagono e del Dipartimento di Stato, è andato a cercare appoggi anche in Francia. Diciamo che Trump si è reso conto che Haftar è uno che può complicare la situazione internazionale e quindi era ora per gli Usa di tornare a occuparsi della Libia. E’ dalla fine del governo Renzi, anche se con qualche intervento di droni contro i terroristi, che il tentativo di coinvolgere gli americani non aveva mai avuto successo. Si sono resi conto che adesso c’è un pericolo reale.

Spostandoci sul fronte orientale, come procede la guerra dei dazi?

Non se ne parla più molto perché è in dirittura di arrivo un accordo  commerciale. Nei giorni scorsi tanto il ministero del Tesoro che il Dipartimento di Stato hanno detto che entro fine mese ci sarà un accordo tra le due superpotenze. Questo è motivato dal fatto che Trump ha capito che c’è un rallentamento della congiuntura internazionale e questo dipende dal rallentamento dei commerci e dalla crisi che sta vivendo la Cina.

Sarà un accordo che avvantaggerà gli americani?

Il conflitto con la Cina resterà latente. L’aggressività cinese nel voler diventare i numeri uno è evidente ed è chiaro che Trump cercherà di mettere sempre loro i bastoni fra le ruote, però un accordo lo concederà. I cinesi sono disposti a cedere su molte cose, ad esempio brevetti e copyright, ma sostanzialmente cedono sui principi, fanno dichiarazioni che poi non mantengono mai. Certamente i mercati reagiranno bene all’accordo, ma poi altre crisi si manifesteranno puntuali. Quanto questo accordo possa essere efficace è tutto da vedere.

Per quanto riguarda la situazione interna, Trump sembra molto innervosito dal fatto che il suo piano di fermare i migranti al confine con il Messico non stia funzionando: nel mese di marzo se ne sono presentati altri centomila a chiedere asilo. Teme di non mantenere la promessa fatta ai suoi elettori e di trovarsi in difficoltà in vista delle elezioni presidenziali?

Non direi sia un handicap, perché comunque i suoi elettori si rendono conto che lui si dà da fare e vuole mantenere le promesse fatte. Va detto che a differenza di una prima fase in cui non c’era l’attraversamento delle frontiere, adesso la situazione è molto complessa, legata alle crisi dei paesi centroamericani ormai in mano alla criminalità organizzata da dove la gente fugge e vuole entrare negli Stati Uniti.

(Paolo Vites)