“I nostri delitti e i nostri peccati sono sopra di noi e in essi noi ci consumiamo! In che modo potremo vivere?” (Ez 33,10) si domanda in modo drammatico il profeta Ezechiele. A questa domanda risponde la liturgia della Settimana Santa, introducendoci al grande evento della Resurrezione: “Guarda, Dio onnipotente, l’umanità sfinita per la sua debolezza mortale, e fa’ che riprenda vita per la passione del tuo unico Figlio” (preghiera del lunedì della Settimana Santa).
Si può vivere perché Qualcuno ci fa riprendere vita, perché questo Qualcuno è risorto, è il Signore, Colui che infiamma i cuori, come avviene per i due discepoli di ritorno sulla strada verso casa, tristi perché non sanno più vivere (cfr. Lc 24,21.24.32). La Pasqua è il Risorto che ci viene incontro e parlando al nostro cuore fa sì che riprenda vita. La Pasqua è un cammino, il cammino che il Risorto fa con noi, ma non al nostro posto, accompagnandoci, ma non sostituendosi a noi. Sulla croce Gesù è morto al posto di chi avrebbe dovuto morire, ma non ha annullato il dramma che ognuno deve vivere.
Forse un brano di Dostoevskij dice bene il dramma di questo cammino, un dramma che non ci è tolto: “Ma ditemi: chi non si è mai perso? Noi tutti siamo diretti verso un punto ben preciso, o almeno tentiamo di farlo, dall’uomo più saggio all’ultimo dei criminali, solo che scegliamo strade diverse. … Io ho visto la Verità, ho visto e so che gli uomini possono essere belli e felici senza perdere la capacità di vivere in Terra. … Io ho visto la Verità, non me la sono inventata, l’ho vista, l’ho vista, e la sua immagine vivente ha colmato la mia anima per sempre. L’ho vista in una tale completa integrità, che non posso credere che essa non esista. … L’immagine viva che io ho visto sarà sempre in me, magari riprendendomi se è necessario, ma indirizzandomi sempre verso la retta via. Oh, io … camminerò, camminerò, anche per mille anni ancora” (Il sogno di un uomo ridicolo).
Quest’anno nella Quaresima abbiamo insistito sul tenere lo sguardo fisso al Crocifisso, dove già avviene la vittoria del Risorto. Perché la croce è posta nella luce della Risurrezione. Una giovane donna anni fa dipinse un’icona con questa esperienza teologica fondamentale: il Calvario al tramonto è raggiunto dagli ultimi raggi di sole, e la croce, da cui è stato schiodato Gesù e riposto nel sepolcro, risplende di una luce indorata. La croce invera le speranze non dette, il grido soffocato nel cuore di una vita nuova: dall’abbandono fiducioso di Gesù nelle mani del Padre nasce una vita nuova, il Risorto, nella storia che sgorga dal cuore del Padre.
A me questa immagine ha fatto tornare alla mente le parole che san Paolo scrive ai Filippesi dal carcere. Dalla situazione di incertezza in cui si trova, Paolo è mosso a scrivere dal desiderio puro di comunicare Cristo ai fratelli: “Purché in ogni maniera, per convenienza o per sincerità, Cristo venga annunciato, io me ne rallegro e continuerò a rallegrarmene… Per me il vivere è Cristo e il morire un guadagno… Ritengo che tutto sia una perdita a motivo della sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore. … Non ho certo raggiunto la meta, non sono arrivato alla perfezione; ma mi sforzo di correre per conquistarla, perché anch’io sono stato conquistato da Cristo Gesù” (cfr. Fil 1;18b; 1,21; 3,8-9a.12).
Che plasticità in queste parole di Paolo! Che fiducia riposta in Cristo, che certezza di vita! E Paolo non è certo un uomo distante dalla vita, dalla realtà, dagli uomini. Ma è proprio questo affidamento a Cristo, tendere a Lui con Lui che gli rende così vicini i Filippesi. È infatti la familiarità di Cristo al cuore per mezzo di questa invocazione costante che rende familiari anche le altre presenze dei fratelli uomini. È come abolita ogni estraneità, è l’amore di Cristo (cfr. 2Cor 5,15-17) a diffondersi, ad abbracciare: “caritas Christi urget nos”, la carità di Cristo ci urge, ci spinge, ci possiede, ci abbraccia… “quando mi capitava di incontrare delle persone”, scrive il pellegrino russo, “esse mi parevano così care come se fossero stati membri della mia famiglia” (cfr. Racconti di un pellegrino russo).
La familiarità con Cristo porta a una familiarità con le persone che ci sono vicine, con chi vive con noi, con chi collabora con noi, con le persone che incontriamo. Si stabilisce una familiarità nuova, il cui fondamento è Cristo stesso.
È la chiesa che sempre rinasce, di nuovo riaccade. È la chiesa, che supera, attraversa il tempo senza ucciderlo, è la chiesa, una compagnia sempre in riforma, che come Maria torna ad offrire suo Figlio, perché la chiesa è la presenza del Risorto che continua nella storia, è il Suo corpo misterioso e reale, misterioso perché reale, che continua nella storia.