Sono stati praticamente 100 giorni – dal 6 aprile al 4 luglio 1994 – eppure quanto successo in Ruanda non sarà mai cancellabile: fu un genocidio e sterminio perpetrato dall’etnia Hutu contro gli “odiati” Tutsi e contro gli stessi moderati che avevano provato per anni a tendere la via della pace nell’odio interetnico dello Stato indipendente dal Belgio solo dal 1962. Oggi si ricordano i 15 anni da quella terribile vicenda che sconvolse l’Africa e il mondo solo con profondo ritardo: la sera del 6 aprile 1994 l’aereo con a bordo il presidente Juvela Habyarimana (assieme all’omologo del Burundi Cyprien Ntariamira) esplode in volo per l’attentato compiuti da un missile Hutu che intendeva metter fine alla vita di chi poche ore prima aveva firmato un trattato di pace con i ribelli Tutsi del Fronte Patriottico Ruandese (Fpr). La classica “miccia” che fece esplodere lo scontro a livello nazionale: 800 mila morti (riconosciuti, forse anche più di un milione al termine della guerra civile) per il Ruanda che ancora oggi non può dimenticare quell’incitamento all’odio continuo che per mesi si sperimentò tra Tutsi e Hutu.
IL GENOCIDIO E IL MASSACRO
«Schiacciare gli scarafaggi»: con questo sinistro e lugubre annuncio dato alla terribile Radio Télévision Libre des Mille Collines, le milizie Interahamwe, (l’ala giovanile del partito al potere, il Movimento Repubblicano Nazionale per la Democrazia e lo Sviluppo) di etnia Hutu iniziarono la caccia all’uomo degli odiati Tutsi considerati “insetti e creature inferiori”. Bastoni, spranghe, fucili, machete: ogni arma era buona per massacrare i propri stessi concittadini, famiglie distrutte, città a ferro e fuoco ed esecuzioni di massa in pochissimi giorni. Come riporta bene l’Agi, quasi nessuno chiese un intervento a livello internazionale, ad eccezione del generale canadese Roméo Dallaire, a capo della Missione Onu in Ruanda (Unamir), che sollecitò (invano) un raddoppio dei circa 2700 caschi blu dispiegati nel Paese per impedire la tragedia. Usa scomparsi (avevano appena perso in Somalia una missione delicata), Belgio inermi e Francia con un atteggiamento “doppio”: Parigi da un lato intervenne nei mesi successivi per limitare le violenze ma fu accusato dall’Onu di aver aiutato l’esercito del governo Hutu con l’invio di armi e munizioni. Il genocidio si fermò a metà luglio 1994 quando l’esercito Tutsi comandato dall’attuale presidente del Ruanda, il Tutsi Paul Kagame, dal vicino Uganda riuscì a conquistare Kigali facendo cadere il governo ad interim degli Hutu.
I TESTIMONI E I MARTIRI IN RUANDA
Tantissime le storie dietro il massacro del Ruanda, dai carnefici assassini che violentarono e uccisero migliaia e migliaia di persone innocenti fino ai martiri che testimoniarono la propria fede, alcuni fino alla morte più atroce. Il più famoso “personaggio” è l’eroico direttore d’albergo Paul Rusesabagina che mise in salvo 1268 hutu e tutsi (come raccontato dal film “Hotel Ruanda”). Di recente, il collega di Tempi Rodolfo Casadei ha invece raccontato di un dialogo avuto con Padre Willy Redoble, giovane rogazionista filippino della parrocchia di Mugombwa (diocesi di Butare): costui raccontò e testimonio quanto riferito dal parroco di Musha (arcidiocesi di Kigali) in merito ai 100 giorni del genocidio ruandese nel 1994, «All’interno della sua chiesa e dei locali parrocchiali si è compiuto uno dei più efferati massacri della guerra: 1.170 uomini, donne e bambini trucidati dagli interahamwé e dalla guardia presidenziale. Le vittime sono rimaste assediate per lungo tempo prima dell’eccidio finale, condannate a una sorta di straziante agonia». Ad un certo punto il parroco (il croato Danko Litric, ndr) vede un gruppo di donne vestite a festa. Chiede loro il motivo ed esse risposero in maniera incredibile: «oggi non è domenica ma è festa lo stesso: oggi andiamo a incontrare il nostro Signore».