L’Italia può considerarsi soddisfatta: una stretta di mano tra Khalifa Haftar, uomo forte della Cirenaica, e Fayez al Serraj, capo del governo di accordo nazionale insediato dall’Onu a Tripoli, politicamente assai diversa dallo scatto-fotocopia del 25 luglio scorso all’Eliseo. Il perché lo spiega al Sussidiario Paolo Quercia, analista di politica estera e direttore del Cenass. “Eravamo fuori dai giochi ed abbiamo ripreso la scena. Ora ci è chiaro che il nostro interesse nazionale va perseguito da soli”. Non ci dovrebbero spallate di Haftar contro Serraj; se così sarà, dice Quercia, il merito sarà in parte anche italiano.



Conte ha parlato di “messaggio di speranza” che viene dal vertice. E’ tutto quello che potevamo aspettarci?

Io penso che si possa parlare di un piccolo successo della diplomazia italiana e personale del premier Conte. Certo, non ci sono risultati concreti e non c’è la data della promessa conferenza nazionale. Però non dimentichiamoci che a Tripoli si è combattuto per un mese e la presenza di tutti gli attori chiave libici non era scontata. C’è stato il downgrading della partecipazione di Usa, Russia e Germania. Ma nel caso di Trump e Putin, penso che la loro partecipazione non sia mai stata realmente in gioco. Qui direi che si è trattato di un errore di comunicazione di Conte, che aveva ingenuamente sbandierato gli inviti, confidando più sul fatto che la nostra conferenza era stata attaccata a quella parigina per i 100 anni della fine della prima guerra mondiale, ove i due leader erano presenti. Piccole astuzie diplomatiche che non sempre portano i risultati sperati.   



La stretta di mano Haftar-Serraj di oggi e quella del 25 luglio scorso all’Eliseo hanno lo stesso valore?

Il significato può sembrare simile, ossia che il futuro della Libia passa attraverso una diarchia politica tra Est ed Ovest del Paese. Però ricordiamoci che gli scontri a Tripoli scoppiano dopo la conferenza dell’Eliseo e la replica di questa stretta di mano non era scontata. Diciamo che alla luce di quanto accaduto acquista un altro sapore. 

Chi si gioverà di più, politicamente, di questa conferenza?

Mi pare scontato che sia l’Italia. Eravamo fuori dai giochi ed abbiamo ripreso la scena. Ora ci è chiaro che il nostro interesse nazionale va perseguito da soli; che non ci sono né l’Europa né gli americani a sostenerci. Che dobbiamo saper lavorare con i francesi, ma anche guardarci dai loro colpi bassi. Che il dossier libico si conferma estremamente ostico, come gli “abbandoni” polemici di Haftar e della delegazione turca alla conferenza confermano. Che le alleanze storiche ed immutabili non ci sono più ed ogni singolo passo va fatto con le nostre forze, scegliendoci alleanze e convergenze di volta in volta. Fare questo con una macchina diplomatica che da vent’anni ormai viene umiliata e costantemente privata delle risorse economiche, è quasi un miracolo. Eppure ci siamo. Ed in un contesto tutt’altro che facile.  



Secondo quanto riportato dall’Ansa, che cita fonti diplomatiche, durante l’incontro Haftar avrebbe assicurato che Sarraj potrà restare al suo posto fino alle elezioni.

Vuol dire che non ci sarà un tentativo di spallata militare su Tripoli, come qualcuno paventava o sperava. Anche questo è già un successo che abbiamo in parte contribuito a creare, grazie all’apertura verso Haftar. 

La Turchia ha lasciato il vertice. Secondo Conte è una scaramuccia che doveva essere messa in conto quando si riuniscono 30 paesi, la Turchia dice di averlo fatto perché estromessa per ragioni politiche da un meeting informale tenutosi nella mattinata. Come stanno le cose?

Era effettivamente una situazione a rischio. Ankara sostiene attivamente le componenti legate ai Fratelli musulmani ed ha una partita aperta con Al Sisi dopo l’estromissione di Morsi dal potere. La presenza del presidente egiziano Al Sisi è stata un fatto importante per noi e per gli esiti della conferenza, ma sicuramente poco gradita dalla delegazione turca guidata dal vicepresidente Oktay. Anche il ruolo di primadonna giocato da Haftar, la cui partecipazione o meno sembrava essere diventata la stessa chiave del successo della conferenza, ha innervosito ulteriormente la delegazione turca.

E’ vero che l’Italia avrebbe fallito anzitempo l’appuntamento per essersi fatta portatrice del piano Onu, invece di avere una politica propria sulla Libia?

No, non credo. Per noi andava bene partire da quello. I nostri interessi principali, tanto il petrolio quanto il problema dei migranti, sono in Tripolitania ed andava bene partire dal governo di compromesso di Al Serraj. Ed i risultati, è innegabile, ci sono. Il flusso dei migranti è stato interrotto e l’Eni è l’unica compagnia che continua a pompare petrolio, collaborando con tutti, al di là delle divisioni politiche e tribali. Però è chiaro che ora siamo entrando in una nuova fase — anche grazie all’attivismo francese — che spinge per una soluzione politica nazionale tra le diverse anime del Paese. Ed in questa nuova fase siamo stati chiamati a ricalibrare i nostri interessi. Anche questo è il senso della conferenza di Palermo: Italia, Egitto, Russia, Tunisia, Algeria, Francia se mettono da parte le loro differenze possono dare un ruolo determinante alla stabilizzazione della Libia.  

Ieri il Corriere ha scritto di una ritrovata e trasparente collaborazione tra Italia e Francia sulla Libia, prima e durante la conferenza. Risulta anche a lei?

Il clima è certamente migliorato. Forse anche come effetto indiretto del perfezionamento della collaborazione tra Eni e Total in Algeria, con una partnership esclusiva per l’esplorazione dell’off-shore algerino.

(Federico Ferraù)