Il 2019 non sembra aprirsi nel migliore dei modi per la politica estera italiana. Tra l’ennesimo braccio di ferro con l’Europa sulla questione dei migranti della Sea Watch e gli sgambetti da parte dei cugini d’oltralpe che, grazie all’aiuto della Germania, hanno ottenuto da Bruxelles uno stop all’acquisizione da parte di Fincantieri dei Chantiers de l’Atlantique, il cammino del nostro governo appare già tutto in salita. Eppure mai come ora l’Italia ha bisogno di rinvigorire il proprio ruolo nelle questioni estere, specie nell’area del Mediterraneo le cui sorti sono legate a doppio filo a quelle del nostro paese.
Per comprenderne i motivi dobbiamo fare un passo indietro nella storia, per lo meno a partire dalla fine della seconda guerra mondiale. L’Italia, come ben sappiamo, fu tra le potenze sconfitte e perse gran parte della sua libertà di manovra, stretta nei docet dell’Alleanza atlantica e osteggiata dalle potenze vincitrici, Francia e Gran Bretagna in particolare, che dettavano legge in termini politici ed economici. A loro dovemmo cedere la nostra colonia per eccellenza, la Libia, e a loro doveva rispondere la nostra politica economica e soprattutto energetica.
Divisa tra le mai sopite aspirazioni mediterranee, gli “obblighi atlantisti” e la necessità di non incrinare i rapporti con le potenze vincitrici, necessari per liberarsi dalle stigmate del fascismo, l’Italia seppe reagire, grazie anche all’iniziativa e al coraggio di grandi uomini che hanno segnato la storia di quegli anni. Enrico Mattei, fondatore e presidente dell’Eni, nonostante l’ostracismo delle Sette sorelle, ebbe il coraggio di cambiare le regole del gioco, offrendo ai paesi produttori di petrolio, che erano quasi tutti controllati dalle compagnie britanniche, condizioni più favorevoli. Gli effetti non tardarono a farsi sentire. Fra gli anni sessanta e settanta l’interscambio commerciale italo-libico crebbe di 17 volte. Il 5 maggio del 1971, pochi mesi dopo l’espulsione degli italiani dalla Libia, Aldo Moro, probabilmente non senza qualche perplessità, si recò a Tripoli offrendo a Gheddafi tecnici specializzati e know how in cambio di condizioni vantaggiose nel campo degli approvvigionamenti energetici. Si narra che il ministro degli Esteri italiano fu costretto, durante tutto l’incontro, a guardare in alto perché il rais non scese mai dal suo cavallo. Tra sforzi diplomatici e rospi mandati giù a fatica abbiamo aperto la strada a una partnership rafforzata con la Jamahiriya che, nonostante difficoltà e battute d’arresto, ha visto il suo coronamento nel trattato di amicizia e cooperazione italo-libico del 2008 – siglato da Gheddafi e Berlusconi – che garantiva importanti vantaggi alle imprese italiane in molti settori.
Anche nella vicina Algeria la lungimiranza dell’Italia di allora seppe far guadagnare posizioni al nostro paese. Sempre Mattei mobilitò la classe politica italiana a favore della causa d’indipendenza algerina, contribuendo a mettere in crisi la posizione della Francia, ancora potenza coloniale nel paese. Arrivò addirittura a dichiarare pubblicamente che non avrebbe mai accettato delle concessioni per l’Eni nel Sahara algerino finché il paese non avesse conquistato l’indipendenza. Inutile dire che questo atteggiamento, nonostante la prematura scomparsa del fondatore dell’Eni, aprì la strada a importanti partnership con Algeri.
Gli esempi potrebbero continuare ma tanto basta per comprendere come l’Italia, nel tempo, riuscì a recuperare parte della sua sovranità nella “sponda sud”.
Nel 2011, alla soglia delle “primavere arabe”, il nostro paese era di gran lunga il primo partner commerciale della Libia e uno dei player di maggiore rilievo in Egitto, Algeria e in molti altri Stati dell’area. L’intervento internazionale nella Jamahiriya, voluto dalla Francia dell’allora presidente Nicolas Sarkozy, ha rimesso tutto in discussione. L’Italia ha pagato per condurre una guerra contro i propri interessi, forse per salvare le postazioni dell’Eni che l’Eliseo aveva minacciato di bombardare, contribuendo, così, a far fuori il suo maggiore alleato. Mentre i vari governi che si sono succeduti alla guida del paese cercavano di riguadagnare posizioni nei nuovi assetti geopolitici di quel Mediterraneo in ebollizione, Francia e Gran Bretagna attuavano la loro realpolitik stringendo accordi con le nuove leadership che via via emergevano, soprattutto in Libia ed Egitto, in barba a qualunque spirito di alleanza, atlantica o europea e, anzi, voltando le spalle all’Italia dinanzi alle questioni più spinose come quella dei migranti o il brutale omicidio al Cairo del ricercatore italiano Giulio Regeni. Come dimenticare il tempismo di Hollande che, pochi giorni dopo il richiamo del nostro ambasciatore in Egitto, si era letteralmente precipitato dal presidente al Sisi con più di sessanta imprenditori pronti a firmare fior di contratti e ad allargare il business nei settori degli armamenti dei trasporti e delle energie rinnovabili?
Anche in questo caso gli esempi potrebbero continuare ma quanto detto è sufficiente per far luce sulla nostra posizione e sulle nostre difficoltà dentro e fuori l’Europa, soprattutto al di là di quel mar Mediterraneo che da sempre è il fulcro della politica estera italiana. Sono queste le sfide che il nostro paese dovrà affrontare nell’anno che verrà, sfide già note a cui probabilmente, se il buongiorno si vede dal mattino, se ne uniranno altre. L’augurio è che l’Italia possa ritrovare la forza e gli strumenti per far valere quella sovranità recuperata con tanta fatica in un passato che oggi appare troppo distante, dimenticato in qualche libro di storia che, però, andrebbe necessariamente riletto.