Aprile e la Libia. Aprile: l’ultimo mese in cui si può combattere senza veder sfiancare le truppe troppo rapidamente. L’ultimo mese in cui dai pozzi d’acqua delle rare oasi si può trarre quella risorsa vitale senza consumare tutta l’energia necessaria per usare le pompe idrauliche che consentono di dissetarsi. Il deserto non è ancora così ostile come lo sarà nei mesi a venire. Lo sapevano bene i senussi e da loro lo imparò bene Gheddafi, quando giovane ufficiale rivoluzionario comprese che l’unico modo non di unificare – cosa impossibile -, ma di costringere le tribù ad una entente cordiale del deserto (che non è stata più ricostruita) era controllare insieme per condividere insieme l’acqua. Gheddafi applicò la stessa strategia di aggregazione politica con il petrolio. Il baricentro era l’accordo con l’Italia, nonostante il passato coloniale più recente.



La tragedia attuale della Libia inizia dalla disgregazione di quella entente cordiale che si era secolarmente costruita tra tribù e che neppure il colonialismo italiano aveva potuto per sempre distruggere. L’idea di Gheddafi era costruire attorno alla Libia, alla Siria e all’Egitto una unità panaraba che consentendo una strategia di crescita economica riproponesse una sorta di nuova Bandung, ossia un’alleanza regionale tra Stati non allineati e quindi indipendenti tanto dagli Usa e dall’Urss quanto – ecco il punto – dagli Stati islamisti del Golfo. Di qui la creazione di un asse anti-panarabo tra le monarchie petrolifere del Golfo e gli Usa, diretto a far finire l’esperienza di Gheddafi.



La cecità europea giunse nel 2011 al suo massimo grado quando Francia e Regno Unito si unirono agli Usa nell’obbiettivo di distruggere Gheddafi e con lui ogni traccia della pur già defunta unità panaraba. L’Italia fu esclusa dal progetto di costruzione di un nuovo sistema di potere in Libia, doveva solo pagarne i prezzi con la minaccia delle sue risorse energetiche e dei suoi rapporti con la “Germania” del Nord Africa e del Medio Oriente, ossia la millenaria grande potenza egiziana destinata a unirsi con le monarchie petrolifere. Tutte le vicende degli ultimi anni nelle due aree nordafricana e mediorientale hanno visto i tentativi di espellere dalle due zone l’Italia per garantire un Mediterraneo franco-anglo-nordamericano che mal sopporta la nuova presenza russa.

Si è chiuso in questi ultimi due anni un ciclo di lenta ma inesorabile esclusione dell’Italia dall’arco geopolitico mediorientale e nordafricano che tira le fila degli attacchi condotti anche con prezzi umani personali altissimi contro le politiche mediterranee di Giulio Andreotti, di Aldo Moro e di Bettino Craxi. Le vicende libiche vanno altresì inserite nel ritorno della Russia nel Mediterraneo con grande forza, grazie all’indebolimento degli Usa con la defezione dalla Nato della Turchia, di fatto alleata del Qatar contro le monarchie petrolifere appoggiando i Fratelli musulmani.

L’offensiva di Haftar è una sorta di pressione armata per promuovere uno stato d’eccezione che provochi una nuova alleanza tra le tribù e neutralizzi altresì l’Isis. Tutti gli Stati non arabi e non musulmani oggi in gioco di fatto appoggiano questo tentativo sostenendo nel contempo la necessità di quel nuovo protagonismo arabo-egizio che le ultime conflittualità nella poligamia petrolifera saudita hanno messo in forse.

L’Italia non è ancora fuorigioco: i nostri legami economici, politici, imprenditoriali e di intelligence con pressoché tutte le fazioni in lotta che trovano continuamente accordi asimmetrici sono ancora troppo forti per essere sradicati. Il valore delle nostre truppe, prima di tutte La Folgore a Misurata, è altissimo e da tutti riconosciuto. L’Eni è una sorta di patrimonio nazionale libico più che italico (forse l’unico), perché ha ricostruito di fatto la rete delle unità tribali. La partita è aperta, ma se la si perde sarà per sempre.