Alcuni punti fermi per capire gli accadimenti in Libia. Bisogna uscire da una meschina restrizione d’animo (e anima) per cui quelli che conterebbero sarebbero solo gli immediati interessi italiani. Essi più che mai in questo caso coincidono con il bene di questa parte di mondo, il Mediterraneo, ormai terreno di scontro tra le superpotenze, e il retroterra umano: l’Africa e le sue genti. In politica bisogna guardare il “particulare” nazionale, è ovvio: ma per farlo davvero occorre alzare lo sguardo, e ragionare senza rinchiudere la mente nella prosperità immediata e apparente del nostro orto. Altrimenti succederà che magari potremo raccogliere le zucchine e le melanzane per un po’, ma sarebbero frutti avvelenati dall’egoismo, e poi addio orto.
Dunque. Khalifa Aftar punta ad essere il nuovo Gheddafi. Per questo ha preso la rincorsa con le sue troppe mobili per prendersi tutta la Libia. È partito da Bengasi, capitale della Cirenaica, per occupare la Tripolitania, e sconfiggere quelli che chiama – non del tutto a torto – “i terroristi”. A parole e sulla carta, a Tripoli sta il governo unitario di tutta la Libia, guidato da Fayez al Serraj. Costui in effetti è un re travicello, espressione dei Fratelli musulmani, piazzato dall’Onu e in rapporti di sudditanza con i gruppi islamisti coinvolti con il traffico di migranti, che gli tengono la pistola sulla tempia.
Però Serraj è anche, per l’appunto, l’uomo che i governi italiani senza soluzione di continuità hanno accettato, sostenuto, e con cui hanno trattato. Per due ragioni: partivano dalle coste della Tripolitania i battelli dei migranti condotti dai trafficanti d’uomini; ed è soprattutto in quel territorio che l’Eni pompa petrolio e gas, e per noi è strategico preservare le forniture d’energia.
Il problema immenso qual è? Nell’affrontare questioni gravi per il Paese (e per la sua civiltà) abbiamo preteso di risolvere le questioni occupandoci solo dell’ultimo miglio, e da soli. Prima con una meritoria opera di salvataggio e accoglienza, poi con una chiusura senza brividi di umanità. In un caso e nell’altro senza visione geopolitica, che non è un tecnicismo, ma capacità di mettere al servizio degli ideali la conoscenza del rapporto tra le potenze nella consapevolezza dei fattori in gioco. Non è mica facile. Abbiamo però un patrimonio storico rappresentato dal filone De Gasperi, Moro, Andreotti, Cossiga, Craxi. Gente capace di dialogo, uomini che vedevano la collocazione dell’Italia nel Mediterraneo come un’occasione di amicizia e di pace, cerniera positiva tra l’occidente dalle radici cristiane con il mondo musulmano ed ebraico.
Tutto questo è stato dimenticato nella prassi, ed oggi anche nelle teorie. Dunque si trattava di guadagnare legami superficiali e spesso ricattatori di convenienza, senza lungimiranza, con chi capitava e poteva garantirci un minimo di tranquillità sui confini. Questa linea di condotta dura tuttora.
Chi ha provato a spezzare – dopo il 2011 – le catene di un minimalismo pragmatico, è stato Marco Minniti, ministro dell’Interno di Gentiloni. Ha cercato di andare con Tripoli ma oltre Tripoli, non riducendo la politica delle migrazioni al tentativo illusorio di tamponare il flusso aprendo un pochino o chiudendo del tutto il rubinetto, ma cercando di stabilire, sia con le tribù che proteggevano gli schiavisti, sia con i governi che si affacciano sul Sahara, rapporti di fiducia. Cercando di impiantare sia in Italia sia in Europa la consapevolezza che se abbandoniamo l’Africa, essa morendo ci ucciderà. Qui non è il caso di aprire quest’altro capitolo. Di certo oggi dinanzi all’azione improvvisa di Haftar, che manda al diavolo tutte le strette di mano e gli accordi con Serraj, l’Italia è totalmente sprovveduta e balbettante.
Haftar non è solo il capo della Cirenaica, legato all’Egitto, all’Arabia Saudita e alla Russia. Haftar è la Francia! Non un amico della Francia, ma il suo personale Gheddafi. Il tentativo di Sarkozy, appoggiato dalla Clinton e da Cameron, di prendere il posto dell’Italia come riferimento economico e strategico di Tripoli, può realizzarsi con la sperata vittoria di Haftar, armato da Parigi con il tramite degli Emirati Arabi Uniti.
Il problema è che la guerra-lampo non è riuscita. Haftar credeva di schiantare le milizie legate ai Fratelli musulmani (finanziate dal Qatar e dalla Turchia) in pochi giorni. Si era comprato l’accordo con molte delle 240 milizie all’opera in Libia. Ma sono accordi beduini, scritti appunto sulla sabbia. E il trionfo non gli è riuscito.
La Russia, che in teoria dovrebbe stare con Haftar, e che ha disegni egemonici sul Mediterraneo in sostituzione degli Usa, non ha condiviso l’azione frettolosa del generale, la cui formazione è stata nell’Armata Rossa sovietica. L’America, com’era prevedibile, dinanzi al colpo di mano, ha alzato la voce, e la Francia ha dovuto adeguarsi chiedendo ai cirenaici di fermarsi e trattare.
Buona cosa, e il ministro Moavero Milanesi ha conoscenza delle procedure e credibilità internazionale per essere un ottimo mediatore. Perché la cosa peggiore di tutte, in ogni senso, è l’esplodere di una guerra civile, con migliaia di morti, la sua tracimazione in Italia con attentati tramite foreign fighters, centomila migranti caricati su canotti e mandati allo sbaraglio.
Di certo è bene che non si premi l’aggressione di Haftar (e della Francia). Non bisogna scordare che alla vigilia dell’assemblea di concordia nazionale, organizzata dall’Onu a Ghadames a metà di aprile e proprio nel giorno in cui il segretario generale Onu era a Tripoli, Haftar ha fatto come Brenno, ha messo la sua spada sul piatto della bilancia. Comunque vada a finire gli equilibri in Libia sono cambiati a suo favore. E non ci possiamo fare niente. Ma sarebbe un prezzo accettabile, purché gli si imponga ragionevolezza, si ottenga la pace e un percorso elettorale trasparente sorvegliato con un preminente impegno dell’Italia.
Conclusione: guai guerra civile, no a intervento armato, sì al rendere conveniente la pace tramite pressioni diplomatiche consapevoli di forze piccole e grandi implicate nell’ombra dello scacchiere. Soprattutto: alziamo lo sguardo, non chiudiamoci nel nostro orto con il filo spinato. Marciremmo, e pure male.