E così siamo arrivati al 2019, ma c’è un Paese nel mondo occidentale dove pare che questo anno sia ancora in là a venire: l’Argentina. Dopo aver brillantemente ospitato un inutile G20, evento che le ha aperto delle porte incredibili al mondo, questa nazione è precipitata nelle solite diatribe di sempre, ingigantite dal fatto che quest’anno sarà elettorale, visto che il mandato quadriennale dell’attuale Presidente Macri scade a dicembre.



Nel 2015 l’ingegnere di origini calabresi assunse il potere dopo 13 anni di gestione kirchnerista che non hanno solo significato la corruzione più grande mai vista da queste parti (30 miliardi di dollari di “fatturato”), ma anche una nazione che, nonostante il terno al lotto vinto con l’aumento del prezzo della soia sul mercato internazionale, non ha saputo investire gli ingenti guadagni se non in enormi quanto inutili sussidi (circa il 70% del Pil) alle classi più bisognose, senza però offrire nessuno strumento di elevazione sociale, ma solo per un mero scambio politico che ha mantenuto la povertà.



Difatti l’Argentina non è ancora in possesso delle infrastrutture che dovrebbe costruire velocemente per potersi considerare un Paese moderno in grado, come hanno fatto molti altri in Sudamerica, di proiettarsi verso un mondo dal quale, per ragioni politiche, ha preferito isolarsi per lungo tempo, privilegiando relazioni profonde con nazioni populiste come il Venezuela, la Bolivia e l’Ecuador.

Nel suo discorso iniziale al Congreso de la Nacion nel 2015, Macri spiegò quali erano i punti chiave del suo programma: lotta alla corruzione e alla criminalità, povertà zero e fine delle fratture ideologiche per camminare verso un Paese finalmente unito nel dialogo su obiettivi comuni. Tralasciando un piccolo particolare: le casse dello Stato le ha ereditate praticamente vuote, ma pensava che la promessa di una pioggia di investimenti stranieri avrebbe risolto il problema in poco tempo. Invece l’Argentina, per poter costruire le famose infrastrutture, ha dovuto contrarre debiti che alla fine l’hanno resa debole e in balia degli starnuti della finanza internazionale che, amplificati da massicce richieste di dollari da parte di entità bancarie spesso legate al vecchio Governo, hanno provocato un effetto domino che ha di fatto fatto aumentare l’inflazione e il rischio Paese e segnato l’inizio di una crisi proprio mentre il Governo Macri, nonostante gli errori commessi dovuti a una sostanziale incapacità di comunicazione e anche da una pessima attuazione da parte di componenti il proprio entourage, pareva aver ottenuto. Risultati che facevano sperare in una continuità del programma e soprattutto del mandato presidenziale. Parliamo di un Paese trasformato in un gigantesco cantiere per costruire le infrastrutture mancanti, di un’inflazione mantenuta entro certi limiti da un cambio con la valuta americana reale, di un peronismo spaccato in varie correnti e soprattutto indagato per la sua corruzione in una operazione definita “Cuadernopolis”, in pratica la Tangentopoli locale, promossa da una giustizia finalmente indipendente, oltre che di un’economia che, sebbene a piccoli passi, marciava verso segnali positivi con l’abbassamento dei dati sulla disoccupazione e la povertà.



Ma l’ossessione machiavellica di due tra i più ascoltati consiglieri di Macri, il suo segretario istituzionale Marcos Peña e il politologo ecuadoriano Duran Barba, nel mantenere, attraverso inspiegabili ritardi nei vari gravi procedimenti in cui è coinvolta, l’ex Presidente Cristina Kirchner come possibile avversaria alle prossime elezioni, garantendosi così una vittoria sicura, ha di fatto costituito un detonatore incredibile che rischia di trasformarsi nell’ennesimo boomerang politico. Lo scoppio di una crisi economica facilmente pronosticabile e risolvibile (solo che le persone in grado di gestirla sono state tutte allontanate dai loro incarichi), unito a decisioni politicamente inspiegabili, quali gli aumenti delle tariffe energetiche e dei trasporti che, anche se giustificabilissimi vista l’esiguità di quelle precedenti (abbondantemente finanziate dallo Stato nella sola Buenos Aires), hanno amplificato gli effetti dell’inflazione sui salari e quindi hanno fatto ritornare in auge un’opposizione peronista (ancora divisa ma in fase di confronto) che nei 40 anni della recente democrazia mai si è tolta il vestito fascista per indossare quello repubblicano e digerire un’alternanza del potere.

Si sta arrivando all’assurdo che una parte della popolazione si sta convincendo che i 13 anni passati dopo il tragico 2001 (altro effetto di un decennio di politiche del peronista Carlos Menem, condannato a 7 anni di carcere, ma salvato dall’immunità parlamentare), seppur trascorsi in un isolamento internazionale, con numeri falsi sull’inflazione e l’economia e con una situazione che stava arrivando a trasformare il Paese in un secondo Venezuela (ma i piatti rotti li ha pagati il Governo Macri, pur nella sua parziale inettitudine) e con una corruzione ampiamente conosciuta, siano stati migliori di questi ultimi e quindi meritino di essere rivissuti dando il voto a un sistema corrotto che li aveva alimentati.

Il rischio di una Kirchner candidata (i sondaggi le danno il 30% dei voti) si sta con il tempo trasformando in una realtà che rivela come la mentalità di questo Paese sia rimasta ancorata in un’epoca ormai, non solo storicamente, trascorsa. È la storia della cicala e della formica che si ripete con grande continuità di una nazione che preferisce lo scontro ideologico modello anni ’70 al dialogo e alla possibilità di vivere una Repubblica con uno Stato di diritto, cose che hanno permesso ad esempio a Perù, Colombia, Ecuador e Cile, che da decenni adotta questo metodo, di instaurare politiche atte a uscire da crisi che sembravano irrisolvibili. Sconfiggendo la povertà o iniziando a ridurla puntando in primis sulla cultura generale e del lavoro e l’istruzione: elementi che abbinati,in Argentina, alle gigantesche risorse naturali, permetterebbero in breve tempo di acquisire un benessere duraturo. Ma per uscire dalle crisi bisogna adottare sacrifici comuni a tutti, cosa che per esempio permise alla nostra Italia di uscire dalla ferita della Seconda guerra mondiale e trasformarsi, per alcuni anni, nell’ottava potenza mondiale.