Questa domenica termina la maratona elettorale in India, con l’ultima delle sette tornate elettorali iniziate l’11 aprile e che hanno coinvolto 900 milioni di elettori per l’elezione dei 543 membri della Camera Bassa. Il conteggio dei voti inizierà il 23 maggio. Le liste elettorali sono molto numerose, molte costituite su basi locali e importanti non solo nei singoli stati – la repubblica federale indiana è composta da 29 stati – ma anche nella formazione del governo federale. La scena politica è dominata da due grandi partiti: il Bjp del premier uscente, Narendra Modi, e il Partito del Congresso, guidato da Rahul Gandhi, nipote di Jawaharlal Nehru, primo ministro dal 1947 al 1964. Tuttavia, per la formazione del governo è normalmente necessaria un’alleanza tra partiti, ma nelle precedenti elezioni del 2014 il Bjp riuscì a conquistare la maggioranza assoluta dei seggi, pur con il 31% dei voti. Ora, il Partito del Congresso spera in un risultato che gli consenta la formazione del governo, con l’apporto di altre forze politiche che si oppongono a Modi e al suo Bjp.
I sondaggi, peraltro difficili in questa situazione, danno finora il Bjp come primo partito, anche se è dubbio che riesca ad ottenere la maggioranza assoluta dei seggi. Il consenso a Modi appare ancora decisamente alto, ma molti elettori sono rimasti delusi dai suoi cinque anni di governo, soprattutto per quanto riguarda le politiche sul lavoro. Particolarmente negativo è l’atteggiamento di chi lavora nell’agricoltura, che si sente trascurato dalle politiche governative, e l’indubbio progresso economico non ha di certo attenuato le gravi diseguaglianze all’interno del Paese. Di più, il nazionalismo induista di Modi ha accentuato le divisioni non solo con le minoranze etniche e religiose, ma con gli indù ritenuti di casta inferiore, che hanno infatti formato un proprio partito.
I problemi maggiori vengono posti dalla forte minoranza musulmana rimasta in India dopo la divisione con il Pakistan, che subì poi a sua volta la secessione del Bangla Desh. La comunità musulmana è stimata in 170 milioni su un miliardo e 300 milioni di cittadini indiani; il Pakistan ha circa 200 milioni di musulmani e il Bangla Desh circa 130 milioni. Il voto dei musulmani è quindi importante, ma la comunità è sottorappresentata, da entrambi i maggiori partiti, sia nei candidati che nei parlamentari. Tuttavia, vista la svolta confessionale induista del Bjp, i musulmani tendono a considerare più sicuro votare per il Partito del Congresso. Anche i cristiani sono sempre più soggetti ad attacchi e discriminazioni, ma il loro peso politico è marginale, dato che rappresentano il 2-3% della popolazione.
Narendra Modi ha trasformato la campagna elettorale in una sorta di referendum sulla sua persona, contrapponendosi così personalmente al leader del Congresso, rappresentante della storica dinastia Gandhi. I due protagonisti non si sono fatti mancare accuse dirette, ma l’acme è stato raggiunto quando una esponente del Bjp ha dichiarato di considerare “un eroe” l’assassino del Mahatma Gandhi, ucciso nel 1948. Sono seguite accese polemiche e scuse ufficiali, ma sottotraccia rimane che molti nazionalisti indù ritengono Gandhi troppo “tiepido” verso l’induismo e troppo “amichevole” verso i musulmani.
Modi ha centrato la sua campagna, come già detto, sul nazionalismo e sulla sicurezza del Paese, all’interno e verso i Paesi vicini, la Cina e soprattutto il Pakistan. Con quest’ultimo è in corso fin dal 1947 un conflitto per il controllo del Kashmir, da allora diviso in due parti. Dopo tre guerre fra i due Paesi (1947, 1965, 1971), gli scontri sono continuati fino a tempi recenti, particolarmente cruenti all’inizio di quest’anno, con un sanguinoso attentato islamico nel Kashmir controllato dall’India e il successivo combattimento tra aerei indiani e pakistani.
Giovedì scorso, sempre nel Kashmir indiano, uno scontro a fuoco con gli islamisti ha causato la morte di tre di loro, e quella di un militare indiano e di un civile. Il fatto ha provocato manifestazioni anti-indiane da parte della popolazione locale, musulmana. Ciò che fa presupporre che, dopo più di settant’anni, una soluzione ragionevole del conflitto sul Kashmir sia ancora lontana e che, d’altro canto, l’immagine tradizionale di un’India pacifista e religiosamente tollerante rischi di essere il ricordo di un passato altrettanto lontano.