Anche ieri a Parigi, per la sesta volta in sei settimane, sono sbarcati nel cuore della città i gilet gialli, ridotti nel numero ma non nello spirito.
Gli osservatori che erano già pronti a dichiarare finita la protesta che spaventa da oltre un mese la parte ricca della Francia dovranno ricredersi. La verità è che i ragazzi e le ragazze che animano il movimento hanno nel frattempo scosso in profondità l’identità del popolo francese.
Ero a Parigi nel fine settimana scorso. Era il quinto sabato consecutivo di scontri con la polizia e la città dimostrava di aver imparato a fronteggiare la protesta come fosse ormai una situazione di routine. In parte perché il governo ha dato disposizioni drastiche, affidando alle truppe anti-sommossa il presidio del centro e imponendo una specie di coprifuoco alla luce del giorno. Dall’altra i grandi marchi e i piccoli commercianti che hanno invece scelto di difendersi con le tecniche in uso nei paesi tropicali quando passa un uragano. La quasi totalità dei lussuosi negozi situati tra via Saint Honoré e l’Opera erano sbarrati: ogni vetrina accuratamente svuotata o ricoperta da doppi strati di pannelli di legno pressato, inchiodati con assi in modo tale da rendere impossibile atti vandalici.
I manifestanti sabato scorso erano meno di un quarto delle forze dell’ordine. Eppure per diverse ore la città è stata sotto assedio. Piccoli cortei sbucavano improvvisamente dalle vie laterali dirigendosi in varie direzioni. Nessuno capiva dove fosse in realtà la manifestazione e dove sarebbe scoppiato un nuovo incidente. Poi il lancio di un paio di lacrimogeni ha indicato con precisione dove aveva avuto inizio la guerriglia. I camerieri dei bistrot erano fuori dai locali, preoccupati per cosa stesse succedendo in piazza. Poi ad un certo punto i manifestanti sono arrivati alla spicciolata sotto la statua di Giovanna d’Arco all’incrocio tra Rue de Rivoli e Rue de Pyramides, proprio dove finisce il Louvre. La polizia li seguiva da vicino, come in una danza. E’ apparso addirittura un plotone a cavallo per chiudere su un lato l’accesso a Rue de Rivoli.
La maggioranza è composta da ragazzi bianchi di circa 30 anni, pochissimi gli anziani. I parigini li guardano come fossero dei “barbari”. Quelle stesse strade e quegli stessi palazzi sono stati testimoni di ogni rivoluzione degna di nota nel corso degli ultimi due secoli. Deve essere questa consapevolezza a dare ai ribelli del 2018 tanta energia e spregiudicatezza.
Essi covano da tempo una rabbia crescente verso la società ricca e gaudente che loro vedono solo in tv o in cartolina. Eppure quella realtà esiste davvero e a Parigi una maggioranza benestante ha il privilegio di viverla come normale quotidianità. Una spaccatura frontale.
La quasi totalità delle città italiane — diciamoci la verità — non corrono questo pericolo. I nostri centri storici sono sicuramente molto belli, ma non sono così sfacciatamente sfavillanti come quello di Parigi. In alcuni casi, come a Roma o a Napoli, il centro cittadino è sporco e poco curato almeno quanto le rispettive periferie. Non si avverte insomma quella distanza siderale che invece rende i giovani francesi che arrivano dalla provincia profonda degli alieni.
Il problema potrebbe porsi a Milano in un prossimo futuro. Da questo punto di vista il capoluogo lombardo ha imboccato una china paradossalmente pericolosa, il suo centro sempre più curato contrasta in modo sferzante con l’hinterland, purtroppo fermo a quel poco di sviluppo conquistato trent’anni fa.
Passato l’uragano, Parigi domenica mattina è ritornata alla normalità. E’ bastato ripercorrere le stesse strade per scoprire che i negozi si sono riempiti della loro costosissima mercanzia riservata ad un pubblico che è ritornato allo shopping natalizio come se niente fosse successo. Così i bistrò e i locali esclusivi, sabato semivuoti, si sono riempiti di giovani belli, ricchi, ben vestiti. Li guardi e capisci che non hanno timore a sfoggiare la loro condizione privilegiata, sono una vera casta in formazione, che sa di aver già vinto.
Al loro cospetto, quei ragazzi venuti dalle regioni agricole della Francia per protestare contro il caro benzina e — senza tanti giri di parole — contro l’Europa, rappresentano un mondo inconciliabile. Non si sono solo rotti — come piace dire oggi — gli ascensori sociali, qui si è spezzata la ragione profonda che rende coeso un popolo, una nazione, una comunità: la solidarietà sociale.
In un paese che è abituato a celebrare con sano patriottismo i suoi figli migliori morti a milioni durante due guerre vinte nel nome della libertà, della fraternità e dell’uguaglianza, oggi appare evidente che quei ragazzi non muoveranno un dito per difendere i loro coetanei più fortunati, la gioventù ricca cresciuta nei boulevard parigini.
C’è già chi evoca Marx per spiegare quello che sta succedendo, riportando gli orologi 200 anni indietro. Ma non serve scomodare chiavi di lettura così antiquate, basta guardare a qualcosa di più vicino, perché in questa storia non c’è una classe sfruttata che si ribella, non c’è la lotta di classe, non ci si combatte per ridistribuire la ricchezza prodotta.
Da un lato c’è un mondo che sente vacillare la certezza stessa del diritto al lavoro inteso come base su cui costruire il proprio futuro, ma anche la propria sicurezza, la propria identità. Dall’altra parte c’è chi pensa che il proprio status sia garantito, che il proprio futuro prescinda da cosa pensa e da cosa fa questa grande massa di persone, a cui destinare al massimo delle mance. Per questo Macron — l’uomo considerato dall’80 per cento dei francesi emanazione diretta del “poteri forti” — ha cercato di fermare la protesta proponendo dei soldi, qualcosa di simile al famigerato reddito di cittadinanza, così in voga dalle nostre parti.
In ogni caso siamo di fronte ad un enorme problema di democrazia. La domanda che si pone la stragrande maggioranza delle persone è se esista ancora la possibilità di scegliere democraticamente programmi e governanti. Oppure se i vincoli sempre più stringenti che assediano le nostre società (le leggi dell’Unione Europea, le regole dettate dai mercati e dalla finanza, i vincoli della globalizzazione o lo strapotere dei media) hanno reso le nostre democrazie poco più di un guscio vuoto, con scarso potere reale. Lo stesso cruento dibattito che abbiamo vissuto in Italia in questi mesi intorno alla disputa sul deficit — per poi passare dal 2,4 al 2,04 come condizione imposta dalla commissione europea al nostro paese — finirà ineluttabilmente con il piegare anche la resistenza dei ragazzi con i giubbotti gialli.
Ma ancora una volta dovremo prendere atto del fatto che un altro dei mattoni su cui abbiamo costruito per decenni la nostra idea di società civile sarà sparito per sempre.