La sera del primo febbraio di quest’anno salgo a Milano sul treno per Parigi. Il due, sabato, devo leggere poesie in una libreria nella zona della Sorbona, per festeggiare con poeti italiani e stranieri i trent’anni della nostra rivista clanDestino, così ho deciso di arrivare la mattina dormendo in treno, per darmi prima il tempo di vedere un amico e gironzolare con lui per la città. Tutti quelli che lo sanno mi dicono di stare attento: l’idea che abbiamo in Italia su Parigi di sabato è di uno stato di guerriglia, di gilet gialli e poliziotti.



Ho una cuccetta in uno scompartimento da sei: salendo sul treno un bigliettaio italiano gentile, quasi scusandosi, mi ritira il biglietto e la carta d’identità; ad altri il passaporto. La folla che s’imbarca è a maggioranza orientale, suppongo cinesi; molti sono anche magrebini, poi qualche comitiva italiana. In cuccetta, nei due lettucci superiori, dormono già due francesi che sembrano, il mattino dopo, operai in trasferta; nelle cuccette basse due studentesse italiane che, per fortuna, spariscono per ore nella notte, raggiungendo gli amici; nell’altra una donna cinese, dalla faccia buona, che parla un buffo italiano. Aspetto fuori che si metta il pigiama e si accomodi nel suo letto, poi entro e mi accuccio anch’io, addormentandomi presto. Il treno è una grande culla.



Poco prima delle sei la porta scorrevole dello scompartimento viene aperta sbattendo fortissimo e le luci vengono accese nonostante noi si dorma tutti (anche le studentesse): il vano è occupato da un enorme poliziotto in tenuta azzurro-mimetica, con basco e armi. Senza alcun rispetto per il nostro riposo, per cui abbiamo pagato, comincia in francese una specie di appello per la restituzione dei documenti. Al sentire il mio nome, Jean-Francò, rispondo piccato in italiano con un “sono io”; alla donna cinese, che fatica a svegliarsi e a capire, il poliziotto riserva un trattamento cattivo, quasi discriminatorio. Alla fine l’operazione si compie, e si ripete per tutto il treno allo stesso modo, forse solo con un poliziotto o due, perché stiamo fermi per più di un’ora. È il benvenuto della Francia a noi, chiunque siamo, studenti, lavoratori, turisti…



La città è come al solito stupenda. Il freddo intenso non impedisce a frotte di persone di scorrere da una meta all’altra del centro. Le paure di chi sente solo notizie da lontano sembrano senza motivo. L’amico parigino che mi accompagna, però, mi dice che i cittadini sono stanchi delle manifestazioni dei gilets jaunes, anche se lui e altri sono andati spesso a mettere tavolini sulla strada e a offrire bevande calde ai manifestanti in segno di solidarietà. In Francia, mi dice, ci sono effettivamente migliaia di persone che non arrivano alla fine del mese, per tanti motivi, per cui l’ultima tassa escogitata, quella ecologica per colpire i diesel, è solo la miccia che ha fatto scoppiare la dinamite.

Ma a Parigi non è così, e i parigini, nella stragrande maggioranza, se ne fregano, aggiunge. Anzi ne sono infastiditi. Ciò non significa che amino Macron, il quale ormai è sottoterra in quanto a gradimento. Semplicemente nessun problema viene risolto, nessuna ferita sanata. La Francia è un paese spaccato a metà secondo molteplici linee di frattura: Parigi e la provincia; ricchi sempre più ricchi e poveri sempre più indigenti; scuole per facoltosi e scuole delle banlieues; europeisti e sovranisti; perfino i gilet gialli sono divisi in varie anime, ora violente ora moderate, ora fasciste ora comuniste. Un grande paese triste che si sta sbriciolando con un incapace a governarlo.

Ne abbiamo esperienza a metà pomeriggio. Alessandro, un altro amico che è venuto a Parigi per far festa con noi, si è portato la famiglia e, avendo un paio d’ore prima della lettura, decidiamo di andare alla Torre Eiffel. Non è complicato: da St.Michel si prende la linea C che segue la riva meridionale della Senna fino alla Torre. Un quarto d’ora. Ma quando siamo alla stazione del Museo d’Orsay, a metà strada, il treno finisce. Per ripartire occorre uscire dalla metro, camminare in superficie fino a quella dopo di Les Invalides, facendo praticamente a piedi il tratto tra due stazioni. E perché? Perché lì sopra, in quel tratto, c’è l’Assemblea Nazionale, cioè il Parlamento, la zona preferita dai manifestanti e la città lì è totalmente sorvegliata e transennata. Infatti la vediamo così: sui ponti e sulle strade barriere di metallo, camionette della polizia, sirene, caschi, manganelli… Il traffico è rado e non passa ovunque. La zona intorno all’Assemblea Nazionale è deserta. Ecco, penso, l’immagine giusta della Francia.

Più tardi alla libreria gli amici francesi, collegati coi cellulari a canali d’informazione indipendenti, ci dicono che anche oggi la polizia ha picchiato duro e che persino alcuni loro conoscenti sono coinvolti. Il malessere della Francia è profondo e antico, assomiglia in definitiva al nostro. Le manifestazioni sono il modo di questo popolo, che da un po’ di tempo ama le insurrezioni, di manifestarlo e non si sa quanto andranno avanti. Ma per loro, come per noi, sarà ancora lunga da trovare la soluzione di quel malessere antico e crescente, ben più misterioso dell’aspetto economico.