“Perché gli Stati Uniti sono in Medio oriente?”: recita il titolo di un recente articolo sul sito del Jerusalem Post. Alla base di questa domanda vi è una frase di Donald Trump sul Medio oriente, in una sua intervista del 27 novembre al Washington Post: “E’ molto importante avere l’Arabia Saudita come alleato, se rimaniamo in quella parte del mondo. Ora, rimarremo in quella parte del mondo? Una ragione è Israele. Il petrolio sta diventando sempre meno un motivo, perché stiamo producendo più petrolio di quanto ne abbiamo mai prodotto. Perciò, sapete, siamo arrivati a un punto per cui non è più necessario rimanere lì”.



Che risposta dà Trump alla domanda iniziale? In sequenza: 1. Non è imperativo che gli Stati Uniti rimangano in Medio oriente. 2. Per rimanere devono avere precise motivazioni. 3. Non è più necessario rimanere lì per la tradizionale ragione del petrolio (ormai gli Stati Uniti sono autosufficienti). 4. L’unica ragione è Israele (anche se mancano le motivazioni della motivazione). 5. Se rimaniamo lì, è essenziale essere alleati dei sauditi. Corollario: è necessario che i due alleati, Israele e Arabia Saudita, vadano d’accordo e che gli Stati Uniti siano acerrimi nemici dell’Iran, nemico acerrimo dei due alleati.



Questa sequenza sembra spiegare la strategia di Trump in Medio oriente. Tuttavia, l’Arabia Saudita ha una rilevanza strategica solo se gli Stati Uniti decidono di rimanere nell’area, altrimenti rimangono solo rapporti economici e finanziari, peraltro molto importanti, ma che non giustificano una presenza diretta americana, soprattutto militare. Per quanto riguarda Israele, le élite statunitensi sono da sempre schierate in suo favore ed è indubbia l’influenza che gli ebrei americani esercitano nel loro Paese. Di questa élite fa parte Jared Kushner, genero di Trump e suo ascoltato consulente per le questioni mediorientali. Viene fatto notare, però, che nel caso di Trump vi è una particolare consonanza personale con il premier israeliano, Benjamin Netanyahu, scarsamente condivisa da molti importanti esponenti filoisraeliani.



Il problema è che entrambi i protagonisti della frase di Trump sono attualmente vacillanti. L’assassinio del giornalista Jamal Khashoggi nel consolato saudita di Istanbul sta mettendo a repentaglio l’immagine non solo del principe ereditario Mohammed bin Salman, uomo forte saudita, ma dell’intero regime. Malgrado le accuse arrivate perfino dalla Cia, Trump ha continuato a sostenere i sauditi, ammettendo francamente che, comunque sia, non si può abbandonare un alleato così importante, senza lasciare ad altri (Russia o Cina) di prendere il posto degli Usa.

Lo stesso Trump ha però messo in difficoltà Riyadh proprio sul petrolio, come pone in rilievo un articolo di Bloomberg (Javier Blas, “Saudi Arabia Faces a Dramatic Choice at Opec”, 30 nov. 2018) con i sauditi stretti tra le richieste di Washington e le esigenze di budget. Dopo il drammatico calo del 2015, i prezzi del petrolio hanno continuato ad aumentare, arrivando a superare gli 80 dollari al barile, ma recentemente il prezzo è crollato a ridosso dei 50 dollari. Questo calo è stato accolto con molto favore da Trump, che ha twittato: “I prezzi del petrolio scendono. Bene! E’ come un grande taglio alle imposte per l’America e il mondo. Evviva! Ringraziamo l’Arabia Saudita, ma facciamoli scendere ancora!”

C’è da dubitare che la reazione di Riyadh sia stata dello stesso tipo, perché la situazione del bilancio statale, non più florida come un tempo, necessiterebbe di un prezzo del petrolio superiore ai 70 dollari. Si è poi aggiunto Putin, che ha dichiarato che alla Russia va benissimo un prezzo intorno ai 60 dollari al barile, guarda caso proprio a metà strada tra i 50 dollari di Trump e i 70 di MBS! La prossima riunione dell’Opec, fissata per il 3 dicembre, sarà molto interessante.

Le cose non vanno lisce neppure con Israele, dove la posizione di Netanyahu è sempre più a rischio, non solo per i casi di corruzione che lo toccano direttamente. La ricerca di un accordo con Hamas sulla Striscia di Gaza, teatro di ripetuti scontri tra palestinesi e israeliani, ha provocato l’uscita dal governo del ministro della Difesa, Avigdor Liberman. Ora la maggioranza del governo è risicata e si parla con sempre maggiore frequenza di nuove elezioni, alle quali Netanyahu arriverebbe indebolito. L’esito potrebbe essere un ulteriore spostamento a destra, con posizioni più rigide che metterebbero in difficoltà lo stesso Trump. Sempre secondo Bloomberg (David Wainer, Nick Wadhams, “Trump’s Middle East Plan Dealt Another Blow With Israel Turmoil”, 15 nov. 2018) si spiegherebbero così i continui rinvii nella pubblicazione del piano elaborato da Kushner per risolvere definitivamente la questione palestinese. Nell’annunciare a suo tempo la redazione del piano, Trump aveva affermato che era venuto il momento di dare qualcosa anche ai palestinesi, ma eventuali concessioni sarebbero in questa fase quasi certamente rifiutate da un pericolante Netanyahu.

The Jerusalem Post, nel citato articolo, definisce una “concessione” all’elettorato evangelico, con i suoi riferimenti biblici, l’affermazione di Trump su Israele come unica ragione della presenza in Medio oriente. E la considera pericolosa per Israele e per gli ebrei americani, cui verrebbero addebitati gli insuccessi nella regione e i danni conseguenti, economici e in perdite umane. Gli Stati Uniti devono rimanere in Medio oriente perché serve a loro e a tutta la regione: un loro ritiro darebbe luogo a una situazione ancor più negativa per tutti.

Il timore che Trump voglia ritirarsi dall’intricata questione mediorientale è tutt’altro che infondato e non fugato dalle sue ultime dichiarazioni, ma un ritiro ora sarebbe estremamente difficile. Lo fu anche il ritiro dal Vietnam, ma la situazione attuale della regione sembra molto più simile a quella, altrettanto drammatica, dell’Afghanistan: senza una apparente via d’uscita. A meno di un cambiamento radicale nelle modalità di affronto del problema.