È morto prima di avere  il tempo di percorrere la strada breve, che  da Arad raggiunge Gerusalemme attraversando i territori palestinesi. “Quella strada – mi disse nel 2004 – la farò soltanto quando dovrò presentare, alla  frontiera, il passaporto ai doganieri palestinesi.  Se la facessi ora sarei l’occupante israeliano che  percorre  la strada a lui più comoda”.  Lo scrittore Amos Oz era anche  questo. L’uomo pubblico, il grande  scrittore, colui che  esprimeva  pubblicamente  il proprio pensiero politico. Nel contempo era anche l’uomo privato, che  compiva piccoli gesti che  appartenevano alla sua sfera  personale  e familiare e davano il segno della  sua  coerenza e della ricerca della  concretezza. Invero, anche del suo scetticismo verso le “generalizzazioni”. “Io non credo in Gesù Cristo – mi confidò -, perché Lui dice di amare tutti gli uomini. Io a malapena riesco ad amare quelli a me  più vicini”.



Nel 1986 era andato a vivere con la sua  famiglia ad Arad, piccola  cittadina ai margini del deserto del Negev, nel sud di Israele. I medici avevano raccomandato “aria buona” per la  figlia  malata di asma. Una scelta impegnativa quella di lasciare Gerusalemme, anche  dal punto di vista  emotivo. Vi sarebbe  tornato molte volte, mai più in modo permanente. A distanza di anni egli dava della città dove  era  nato un giudizio severo: “Gerusalemme – mi disse nel suo studio polveroso di Arad – è una  città che  attira  fanatici di  tutte  le  religioni. E per questo non mi piace”.  Nel suo libro capolavoro “Una  storia di amore e di tenebra” aveva descritto la sua  adolescenza in quella  città e aveva  fatto pace (dal punto di vista  letterario) con quella  storia.



Gerusalemme, invece, anche  negli ultimi anni della sua  vita non aveva  fatto pace con lui. In una  calda  estate l’intellighenzia della città si era data appuntamento nei giardini non lontano dall’Hotel King David per ascoltarlo, per un’intervista nell’ambito della Fiera del Libro. Amos Oz non fece sconti, pacatamente e con fermezza ripeté le sue  convinzioni, non ultima quella della  necessità di dare il via  libera alla costituzione di uno Stato palestinese. Ebbene, il gelo  e la  freddezza dell’uditorio fu impressionante. Si potevano contare le  mani di coloro che  lo applaudivano.



Il destino di Amos Oz è stato anche  questo: isolato sempre più in patria per le sue scelte  politiche. Fondatore  in gioventù di organizzazioni pacifiste, sempre  più è andato a confliggere con il mondo dei coloni israeliani. Questi ultimi non hanno nulla  da  spartire con  i valori che  avevano portato Amos Oz a scegliere di vivere  in un kibbutz, per partecipare  alla  creazione dello Stato di Israele. Semmai i nuovi coloni sono gli artefici di quella “Grande Israele” dalle  rive  del Mediterraneo al fiume  Giordano, dove  non c’è posto per i palestinesi.  Nulla di più diverso dal dover convivere, invece, su due  fazzoletti di terra, l’uno accanto all’altro per soddisfare due  legittimi diritti.  Quest’ultima era  la  visione, pragmatica, di Amos Oz.

La  politica  israeliana invece ha  percorso e continua a percorrere una strada, di fatto opposta. Erano trascorse  poche  ore  dall’annuncio del premier Netanyahu di nuove  elezioni politiche, anticipate al 9 aprile del prossimo anno, e dallo stesso Governo giungeva  il via  libera per costruire altre duemila  case  per coloni israeliani all’interno dei territori palestinesi. Per calcolo elettorale, oggi come  negli anni passati, si continua a picconare  una soluzione al conflitto tra  israeliani e palestinesi, che  sia sul terreno concreta  e praticabile. L’annuncio del piano di pace, proposto dal presidente Trump (e da suo genero), previsto per il prossimo gennaio sembra così una cambiale che nessuno intende  onorare: non i palestinesi (i possibili umiliati), non gli israeliani  (i possibili vincitori).

Il demone della “sicurezza” sembra invece farla da  padrone. Netanyahu, in questo è maestro. Non più l’Isis in Siria, ma  il demone  iraniano nella stessa terra. Soldati e mezzi militari da  colpire in un’escalation che  coinvolge anche  il Libano  e gli alleati Hezbollah. Quello che  si poteva  ottenere  in via  politica si cerca di raggiungerlo in via  militare. La  rottura voluta da Trump e Netanyahu  (e da parte dell’Unione europea considerata immotivata) dell’accordo sul nucleare con l’Iran e le  nuove sanzioni economiche americane contro Teheran  portano la  regione mediorientale a una  nuova stagione di glaciazione della politica e della mediazione.