Nel loro tour mediorientale sia il segretario di Stato americano Mike Pompeo che il consigliere per la sicurezza nazionale John Bolton hanno rassicurato i propri partner, confermando che il ritiro degli Stati Uniti dalla Siria non avverrà prima della totale distruzione dello stato islamico e del ritiro di tutte le forze iraniane.
E’ evidente che chi ha deciso queste condizioni, le ha decise per non ritirarsi o rimandare il disimpegno all’infinito. Come vedremo qui di seguito, la ragione è molto semplice: è proprio la presenza delle truppe statunitensi che le rendono irrealizzabili.
La prima considerazione a riguardo è la più ovvia: l’eliminazione completa dell’Isis non si vede come potrebbe avvenire, visto che per espressa ammissione del presidente Trump (vedi qui e qui) – sarebbero stati proprio gli Stati Uniti ad averne favorito l’ascesa, salvo poi combatterla ‘’ma non del tutto’’ mantenendo l’organizzazione di al-Baghdadi in piedi per fini destabilizzanti. Se invece davvero si volesse seriamente sconfiggere l’Isis, questo lo potrebbe fare sicuramente in maniera più rapida ed efficace l’esercito siriano, come dimostrato recentemente nella regione di al Safa, quando ha eliminato l’ultima sacca in cui insistevano elementi dello stato islamico.
La seconda evidenza è che – da parte degli Usa – tutta l’attenzione è costantemente rivolta solo contro lo stato islamico. Questo è altamente ambiguo: oggi la forza terroristica preminente in Siria non è l’Isis ma al Qaeda, ovvero la stessa forza che ha attaccato le torri gemelle a New York ed ha procurato in un sol colpo 3mila morti.
Ovviamente l’amnesia è solo apparente: l’inspiegabile trova la sua ragion d’essere solo nella pervasiva volontà di mantenere comunque l’opera destabilizzatrice ancora in corso: ciò vuol dire che l’Isis finora è stato utile per fornire pretesti. Non sarebbe strano che nel caso gli Stati Uniti eliminassero l’Isis senza rinunciare all’opera destabilizzatrice, essi troverebbero comunque il modo di passare il testimone ad altri soggetti o adottare altre metodiche distruttive.
Per capire cosa nascondano questi ricorrenti ambiguità della leadership statunitense, è utile citare quanto scritto recentemente dal senatore americano Dick Black su Strategic Culture, giacché in poche parole individua il fulcro centrale della guerra siriana, che si alimenta soprattutto di menzogne, reticenze, omissioni: “Questa guerra disastrosa – dice il senatore Black – non si sarebbe mai verificata senza la pianificazione e l’esecuzione americane. E avrebbe risparmiato anni [di guerra] e centinaia di migliaia di vittime se avessimo chiuso le nostre basi di formazione e logistica in Giordania, Turchia, Arabia Saudita e Qatar. La guerra siriana – prosegue Black – ha avuto poco a che fare con la primavera araba e ha molto a che fare con azioni clandestine di Cia, Mi-6, Mossad, Mit turco, Dgse francese, Gid Saudita e altri, lavorando con i selvaggi Fratelli musulmani siriani. Abbiamo addestrato e reclutato molti più terroristi di quanti ne abbiamo uccisi, e incontreremo di nuovo quei sopravvissuti, in altri tempi e luoghi”.
Quindi dopo aver chiarito l’inutilità e pretestuosità della prima richiesta, passiamo ora al ritiro dell’Iran, che costituisce la seconda istanza posta dagli Stati Uniti come condizione per la smobilitazione delle proprie basi.
Anche in questo caso Washington finge di non sapere che Teheran non è intervenuta in Siria per mire espansionistiche o per minacciare Israele: quando l’Iran e la Russia sono intervenute in forze in Siria, l’Isis e i terroristi jihadisti erano arrivati fin dentro Damasco, l’appoggio occidentale al “regime change” era fortissimo. In quei frangenti Tel Aviv ha rinvigorito i suoi raid aerei sulle forze governative ed iraniane adducendo, per la prima volta, non in generale ma nel contesto degli avvenimenti in corso, il “pericolo iraniano”. A distanza di tempo, la situazione è notevolmente migliorata ma essendo immutata l’ostilità internazionale, Damasco non può certo permettersi oggi di privarsi dell’aiuto iraniano, sia militare che economico. Pena la sua distruzione, anche dell’intera popolazione.
Ma esiste anche un altro motivo per cui la richiesta di smobilitazione delle forze iraniane non potrà essere mai accolta: oggi il Corpo dei guardiani della rivoluzione islamica (Irgc) iraniano mantiene una forte presenza solo in Al-Bukamal, sulle rive del fiume Eufrate e nelle vicine aree desertiche a sud al confine con l’Iraq, aree controllate dal governo siriano e dagli alleati. Invece, nel resto del paese le forze iraniane sono presenti tramite milizie strettamente integrate nelle Local Defence Forces (Ldf), sta a dire che sono unità miste, inscindibili con il personale siriano. E’ degno di nota che gli elementi sciiti – provenienti dall’Iran ma anche dall’Iraq, dal Pakistan e dall’Afganistan – nelle Ldf sono però sotto diretto controllo siriano, non iraniano.
Quindi il “rinforzo” sciita è parte integrante delle Ldf, che non devono essere confuse con le più note Forze di Difesa nazionali (Ndf), solo siriane. Queste evidenze sono ampiamente illustrate da Aymenn Jawad Al-Tamimi (analista, editorialista e consulente della Difesa britannica), nel suo recente articolo sull’American Spectator. Questo articolo è fondamentale perché chiarisce che il presidente siriano Bashar al-Assad ha approvato una serie di decreti sull’Ldf nell’aprile 2017. Questi decreti stabiliscono che “il rapporto delle unità Ldf con gli iraniani rimarrà fino alla fine della crisi nella Repubblica araba siriana o fino a che verrà emessa un’altra decisione”. Va da sé che per “fine della crisi siriana” si intende esattamente il ritiro delle truppe Usa. Se ciò avvenisse, il problema dell’Isis sarebbe risolto e i curdi si riconcilierebbero con il governo centrale ottenendo la sospirata autonomia amministrativa.
Quindi, paradossalmente, è proprio la presenza Usa a impedire la sconfitta definitiva dell’Isis, come pure a ritardare lo scioglimento delle unità siro-iraniane e quindi “il ritiro iraniano”.