Le scuse accampate per ritardare la ripresa della Siria ormai sono le più inverosimili. Davanti a tutto ciò che sta subendo il popolo siriano, non c’è niente di più appropriato che il Salmo di Isaia “Guardai ma non c’era nessuno, proprio nessuno tra loro che sapesse dare un consiglio o che, quando io lo interrogavo, potesse dare una risposta” (Isaia 41:28).
Molte le domande che rimangono senza risposta: che senso ha privare i siriani del necessario con le sanzioni, per poi fare i convogli umanitari come quello arrivato pochi giorni fa al campo profughi di Rubkan, dove però ai 50mila residenti è impedito di tornare a casa? Oppure, che senso ha dire di proteggere il popolo siriano e, allo stesso tempo, comminare nuove sanzioni che lo privano di tutto, fino anche alla possibilità di scaldarsi per l’inverno? Ed ancora, come si può sostenere di difenderlo, quando si impedisce di ristrutturare le abitazioni che gravemente lesionate cominciano a cadere per i colpi inferti dalla guerra?
Si potrebbe continuare con una lunga lista di incongruenze, omissioni, connivenze, responsabilità: tutti i leader sono perfettamente coscienti di ciò che succede e di ciò che andrebbe fatto.
Uno spiraglio di luce sembrava apparso con l’annuncio di Trump di smobilitare le truppe statunitensi Trump a dicembre. E invece da parte dell’establishment è un susseguirsi, di distinguo, di smentite, di frasi “dual use” da far valere per riuscire a non cambiare niente. Prova ne è che le truppe sono addirittura riuscite ad aumentarle, anziché diminuirle. Nel frattempo, c’è stato spazio anche per un bombardamento alle truppe siriane ad Abu Kamal, ree di aver “sconfinato il tiro” dirigendolo verso l’Isis che aveva trovato riparo nelle terre di “proprietà” statunitensi.
Così la fiera dell’ipocrisia continua: l’ultima idiozia è quella dell’inviato speciale per la Siria James Jeffrey che asserisce che esiste il forte pericolo che il ritiro delle truppe americane possa lasciare “un vuoto” che potrebbe essere riempito dallo stato islamico (ricordate la comunicazione del Pentagono di un Isis “redivivo” tra tra 6-12 mesi, come nella saga cinematografica Highlander?).
Allora, di fronte a tanta palese contraddittorietà, dobbiamo dirlo chiaramente: se l’esercito Usa lasciasse la Siria non accadrebbe nient’altro che il ripristino della legge e dell’ordine. Sì, perché l’esercito siriano manterrebbe schiacciato l’Isis, come ha fatto con il resto del territorio. Quindi un vuoto non vuol dire nulla, esprime solo il fastidio di andarsene perché questo ristabilirebbe la piena sovranità nazionale.
In tal senso è rilevante che una tale eventualità – il ritorno dei territori ad est dell’Eufrate sotto il governo siriano – è auspicata dalle popolazioni locali stesse.
La situazione è perfettamente descritta dal Washington Institute in un articolo intitolato molto eloquentemente “giochi Usa e turchi a Manbij”. L’osservazione è molto semplice: 1) un’area di “500 miglia quadrate che comprende Manbij e la campagna circostante ospita attualmente circa 450mila abitanti, l’80% dei quali è arabo-sunnita; i curdi rappresentano solo il 15% della popolazione”, ma gli Usa hanno preteso che l’amministrazione curda predominasse su tutte le altre realtà; 2) per questo, appena ne hanno intravisto la possibilità data dal ritiro Usa, tutte le principali tribù della zona – Bou Bana, il Ghanaim, il Bou Sultan e l’Hanada -, hanno detto di voler tornare sotto l’amministrazione del governo centrale di Damasco. Lo studio del Washington Institute rivela ancora in maniera più efficace cosa vuol dire il “vuoto” paventato da Washington: è la riunificazione con il governo di Damasco. Prospettiva evidentemente da incubo, dato che questa – quando è permessa – è recepita positivamente dalla popolazione, che in queste circostanze, la reputa come opzione migliore.
E’ inoltre rilevante come la tendenza nazionale rispecchi esattamente il caso di Manbij riportato dal Washington Institute: questa tendenza, avvalorata dal buon esito di numerosi incontri che da settimane il governo centrale di Damasco sta tenendo in loco con i dignitari delle tribù locali, è la fisionomia di un paese che sceglie la riconciliazione anziché il proseguimento delle utopie.
E’ proprio questa la situazione che Washington chiama “vuoto”, un vuoto pericoloso perché comporterebbe il ritorno del diritto, delle regole democratiche e dell’autodeterminazione, nonché avvicinerebbe le elezioni, e riporterebbe l’integrità e la sovranità al paese.
Intanto anche dall’Iraq giunge una voce, ed è dello stesso segno. E’ quella di Hassan al-Kaabi, vicepresidente del parlamento iracheno. Ha risposto a Trump il quale durante una intervista alla Cbs ha detto che le truppe Usa si ritireranno dalla Siria in Iraq “ma manterranno di mira l’Iran, da lì”. La risposta non si è fatta attendere: “Trump ha superato palesemente il segno”, ha detto al Kaabi. Ed ha aggiunto: “La sovranità della nazione irachena si leverà in piedi; l’Iraq non sarà un trampolino di lancio per attaccare qualsiasi paese”.
Non sarebbe ormai ora che le energie profuse per la guerra al terrore lasciassero spazio a ciò che dicono di aver difeso?