Alla base della decisione di Donald Trump, poi non concretizzata, di ritirare le truppe americane dalla Siria vi era la presunta definitiva sconfitta dell’Isis, che appariva particolarmente netta in Iraq, ma per l’Iraq non si parlava di ritiro delle forze statunitensi. Le ragioni di questo diverso trattamento sono probabilmente da ricercare nell’importanza dell’Iraq per l’azione di contrasto all’espansione iraniana e nella necessità di evitare che il petrolio, di cui il Paese è ricco, finisse nelle mani sbagliate. Il problema della presenza di truppe straniere sul proprio territorio è stato però messo all’ordine del giorno dal Parlamento iracheno, nel tentativo di rendere questa presenza più controllata da parte del governo nazionale e meno condizionante la sovranità dell’Iraq.



La proposta sta sollevando grandi discussioni tra i vari partiti iracheni, divisi tra il desiderio di riaffermare l’indipendenza del Paese e la consapevolezza che l’Iraq non è militarmente autosufficiente. Al di là delle dichiarazioni ufficiali, infatti, il pericolo dell’Isis è tutt’altro che scomparso ed è tuttora presente in regioni periferiche del Paese. La guerriglia in atto sta creando gravi difficoltà alle popolazioni di quelle zone, già molto provate dalle precedenti guerre, e sta suscitando malcontento nei confronti del governo centrale. La difficile situazione interna dell’Iraq, inoltre, rappresenta un terreno fertile per una ripresa dei reclutamenti dell’Isis.



L’Iraq continua a soffrire dei conflitti tra le sue componenti etnico-religiose: arabi sciiti, arabi sunniti, curdi, sunniti ma indoeuropei, cui si aggiungono problemi locali con altre minoranze, quali turcomanni e assiri. Prima dell’invasione del 2003 che portò alla caduta e uccisione di Saddam Hussein, Stati Uniti, Regno Unito e Francia avevano imposto due no-fly zone nel Nord e nel Sud del Paese per difendere rispettivamente i curdi e gli sciiti dagli attacchi del regime laico, ma sunnita, di Hussein. Dopo la caduta del regime, la maggioranza sciita ha preso le redini del governo, creando problemi tra i sunniti. Le potenze regionali, in primo luogo Iran e Turchia, sono un ulteriore elemento di divisione.



La strategia dell’Iran continua a perseguire l’obiettivo della cosiddetta “Mezzaluna sciita” per arrivare fino alle rive del Mediterraneo, attraverso l’alleanza con gli sciiti iracheni, gli Hezbollah in Libano, gli alawiti in Siria. Da qui il particolare rilievo dato alla recente visita in Iraq del presidente iraniano Hassan Rouhani, un chiaro tentativo di aumentare l’influenza iraniana e di avere un aiuto per superare le difficoltà poste dalle sanzioni statunitensi. Sono stati firmati vari importanti accordi di collaborazione economica, ma diversi commentatori fanno presente come anche in passato accordi simili siano poi rimasti sulla carta. La cautela irachena è dovuta alla necessità di non irritare gli americani e di mantenere buoni rapporti con gli altri Stati arabi, anche avversari dell’Iran, come Arabia Saudita ed Emirati Arabi.

Da un altro lato, la visita va letta tenendo conto del conflitto interno iraniano tra riformisti, di cui Rouhani è un esponente, e radicali: in questa ottica va visto anche l’incontro con il Grande Ayatollah al-Sistani, massima autorità sciita irachena. Al-Sistani si è sempre distanziato dagli estremismi del regime iraniano e, come riporta la Reuters, anche in questa occasione, pur affermando la positività del rafforzamento dei rapporti dell’Iraq con i suoi vicini, ha sottolineato che esso deve essere “basato sul rispetto della sovranità degli Stati e sulla non interferenza negli affari interni”. Aggiungendo poi che, tra le sfide più importanti che deve affrontare l’Iraq, accanto alla lotta contro la corruzione c’è la necessità “di mantenere le armi nelle mani dello Stato e dei suoi servizi di sicurezza”. Chiaro riferimento alle milizie sciite armate da Teheran e che costituiscono un possibile problema per l’Iraq, affermazione tanto più significativa in quanto proviene dalla più alta autorità sciita irachena. Sarà bene ricordare che, negli anni 80, Iraq e Iran si sono affrontati in una disastrosa guerra durata otto anni e che molti problemi, anche territoriali, rimangono aperti.

L’altra grande fonte di difficoltà per il Paese è la volontà dei curdi di trasformare l’attuale autonomia del Kurdistan in una vera e propria indipendenza, progetto approvato a stragrande maggioranza dai curdi iracheni in un referendum del 2017. Il referendum era stato ostacolato non solo dal governo iracheno e da Turchia, Siria e Iran, che ospitano forti minoranze curde, ma anche da Stati Uniti e altri governi occidentali. Dopo il referendum, l’esercito iracheno e le milizie sciite hanno attaccato Kirkuk, al centro di una regione ricca di petrolio, che era stata conquistata dai curdi dopo che l’esercito si era ritirato di fronte all’avanzata dell’Isis.

L’autonomia del Kurdistan iracheno è considerata una minaccia dalla Turchia, la cui consistente minoranza curda tende da tempo a raggiungere almeno una qualche forma di autonomia, finora negata da Erdogan, come peraltro dai precedenti regimi laici. Anche per l’Iran la minoranza curda rappresenta un possibile problema, portandolo a fiancheggiare il governo iracheno a conduzione sciita nella sua contrapposizione al Kurdistan. Ci sono perciò tutte le premesse perché l’Iraq, purtroppo, torni tragicamente alla ribalta.