La giornata di mercoledì in Venezuela ha chiarito solo due cose. Nonostante la sua importanza storica, sottolineata dal fatto che, con il giuramento di Juan Gerardo Guaidó Marquez, leader dell’opposizione, si sia prodotto il primo vero segnale di alternanza politica alla dittatura di Maduro, lo stesso fatto ha generato un caos politico tale da porre come unico arbitro della situazione, purtroppo, l’esercito.



Il ricco Paese latinoamericano, che definire in crisi appare inadeguato rispetto al dramma totale che sta vivendo, ha ormai ben poche strade per proseguire nel cammino verso la democrazia tanto agognata quanto finora trasformata in un campo minato di difficile attuazione.

Lo abbiamo già anticipato: il dramma venezuelano non è una faccenda esclusivamente ristretta al continente latinoamericano, ma è un problema mondiale per la semplice ragione che segna un punto fondamentale nel rapporto o, per meglio dire, nella considerazione che la parola popolo, intesa come massa di esseri umani, ha nei confronti di un’economia che in teoria dovrebbe puntare verso un benessere generale, ma che invece sta portando il mondo verso un pauroso sviluppo della povertà, a prescindere dal sistema o dal colore politico di chi comanda, ovviamente, sempre in “nome del popolo sovrano”.



La fotografia del Venezuela attuale è la sintesi di questo dramma: da una parte una dittatura brutale, comandata da un leader che in molti suoi discorsi ha oltrepassato i limiti della ragione, portando uno dei paesi più ricchi della Terra alla morte civile. Ma sorretto da due potenze quali Cina e Russia per mere ragioni economiche da una parte e strategiche dall’altra. Nel versante opposto, un giovane di 35 anni assurto a leader di un’opposizione da sempre maggioritaria che, appoggiato interamente dall’Assemblea legislativa, che dovrebbe in teoria costituire la base dell’ordine costituito del Paese, decide, in coincidenza con una riunione globale a Davos, di giocare la carta del giuramento per proclamarsi, quasi a furor di popolo, presidente ad interim. Subito riconosciuto dalla gran parte dei Governi del resto del mondo.



La mossa di Guaidó Marquez, seppur attuata con la “sorprendente” sincronia descritta, anche per la situazione del Paese, mette però il Venezuela con le spalle al muro e accelera un processo che purtroppo ha ben poche speranze di una soluzione pacifica: perché dall’altra parte Maduro e il suo regime, oltre agli appoggi già descritti, contano su una parte della popolazione che lo sostiene principalmente per non perdere i sussidi e l’assistenza statale che, seppur ridottissimi visto il caos economico e sociale, significano sopravvivenza. Inoltre, c’è la non tanto velata presenza del narcotraffico a fornire un importantissimo aiuto al regime.

Qui si apre un quadro abbastanza enigmatico per cercare di capire da che parte stia l’esercito, che a questo punto diventa l’ago della bilancia di tutta la situazione: non occorre un grande sforzo per capire che, seppur con una maggioranza notevole, il processo democratico così com’è da solo non può farcela a imporsi finché Maduro può contare su forze armate regolari e non (i tragicamente famosi “colectivos”, vere e proprie bande criminali organizzate al servizio del regime). Ma, a meno di tragiche sorprese che possono accadere in ogni momento, la logica suggerisce che, visti i precedenti, la repressione della dittatura pare ridotta e questo è un segnale di come all’interno del regime sia in atto una spaccatura non solo in favore dell’opposizione, ma anche ideologica all’interno del chavismo. Proprio nell’esercito, dove ormai in molti si stanno schierando contro Maduro accusandolo di tradimento dell’ideale che portò Chávez al potere vent’anni fa. E c’è da chiedersi se, come successo in Perù negli anni Ottanta, sarà proprio l’esercito a garantire lo svolgimento di nuove elezioni, questa volta regolari, e traghettare il Paese verso la democrazia: perché l’agonia del Paese, se così non fosse, provocherebbe nel tempo la fine dell’attuale potere, ma a costo di un bagno di sangue che vedrebbe come vittima proprio il tanto decantato “popolo sovrano”.