Niente accordo. Con il via alla “protezione” americana, ossia dazi su beni cinesi per 200 miliardi di dollari – e le contromisure cinesi, che non tarderanno ad arrivare -, ora si teme una frenata dell’economia mondiale. Trump vuole i dazi per beneficiare l’economia Usa, Xi Jinping ha l’obiettivo di eliminarli del tutto, e in questo modo le due posizioni restano distanti; ma c’è anche la lettera di Xi a Trump che pone le premesse per una ripresa del dialogo. In realtà la partita strategica è ancora più ampia e riguarda l’ordine globale, dice da Pechino Francesco Sisci, giornalista e docente alla Renmin University of China.
Sisci, è sorpreso dall’esito del confronto tra le due delegazioni?
No, tutte le persone bene informate in Cina e Usa sapevano che le trattative sarebbero saltate e che il vicepremier Liu He era venuto a Washington come gesto di cortesia e per non rompere con gli Usa.
Eppure non sembra una rottura definitiva.
Infatti non lo è. C’è spazio per ripensamenti, ma prima di questo bisogna fare un passo indietro e chiedersi perché la Cina si è ritirata quasi all’ultimo minuto, sostenendo che l’accordo implicava il cambiamento di leggi cinesi e che questo non poteva avvenire.
Lei cosa dice?
La mia impressione è che nelle ultime due-tre settimane la Cina abbia cominciato a riconsiderare l’accordo per le sue implicazioni sistemiche. A Pechino sembra che si siano accorti che l’apertura di mercato concordata con gli Usa implicava la ristrutturazione profonda delle imprese di Stato, scheletro della società e del potere cinese, e che una liberalizzazione e apertura del mercato dei capitali avrebbe in teoria sottoposto la Cina a crisi tipo quelle di 20 anni fa in Asia.
Questo cosa significherebbe per la Cina?
Allora crisi finanziarie crearono crisi sociali e poi politiche che distrussero i regimi dittatoriali in Indonesia o nelle Filippine. Se quindi Pechino vuole aprire il mercato deve riformare le imprese di Stato e passare a una riforma politica che metta il paese in grado di subire un’eventuale crisi finanziaria e soprattutto aumenti un po’ di più il credito e la fiducia internazionale nella Cina. Ma tutte queste riforme hanno bisogno di più tempo di quello attuale.
Questo a livello strategico. Ma sembra che il rinvio imposto dalla Cina abbia anche altre ragioni.
Sì perché non è credibile che la Cina cerchi di sviluppare un suo ambito commerciale economico “separato” dall’America. La vicenda di Huawei è illuminante. L’America sta rendendo la vita difficile a Huawei in tutto il mondo e il benessere dell’azienda che solo un anno fa sembrava dovesse dominare il 5G oggi è molto più a rischio.
E per quanto riguarda gli Stati Uniti?
D’altro canto l’America deve chiarire cosa è essa e anche inquadrare il problema Cina in una prospettiva diversa. L’America è un paese fra tanti paesi oppure è più di un paese, un “impero”, un sistema internazionale di relazioni? Se è un paese, la Cina si confronta con un altro paese. Ma se l’America è un sistema globale di relazioni, allora la Cina o si adatta o rimane isolata.
Cosa dice il fatto che la Cina abbia abbandonato il tavolo con una lettera di Xi Jinping che Trump ha definito molto bella?
Vuol dire che gli accordi sono saltati in maniera “dolce”, senza sceneggiate e questo dà speranza. Probabilmente le discussioni continueranno e forse si arriverà a una soluzione. Ma di certo la soluzione non è oggi e dobbiamo prepararci probabilmente a un periodo di turbolenze di mercati. Gli Usa applicheranno tariffe ai beni cinesi per il 25% e la Cina ha annunciato ritorsioni “adeguate”. Tensioni di altro tipo potranno aumentare, ma forse anche la Cina si è resa finalmente conto delle conseguenze sistemiche che la liberalizzazione dei mercati comporta.
E l’America?
Come dicevo, gli Usa si devono rendere conto che la questione cinese non è semplicemente bilaterale, ma comporta un chiarimento della sua posizione in ambito globale. Se l’America si ritira da “impero” globale ha già perso.
(Marco Tedesco)