L’Ucraina continua a rimanere molto instabile su numerosi fronti: esterni, come il conflitto con la Russia per Crimea e Donbass, o il processo di associazione all’Unione Europea; interni, come la fragile economia, la diffusa corruzione, le divisioni nel mondo ortodosso, le prossime elezioni.

La perdita della Crimea rimane per l’Ucraina intollerabile e, almeno nel medio periodo, non potrà essere accettata da nessun governo; d’altro canto, nessun governo russo ne accetterà mai la restituzione. Una questione irrisolvibile, salvo una nuova guerra di Crimea, che avrebbe conseguenze ben più gravi della guerra ottocentesca, o con accordi con Mosca, per il momento lontani. Nel Donbass, il conflitto con i separatisti russofoni continua a far vittime, anche se in modo per fortuna più sporadico, dopo i 10mila morti finora causati dalla guerra.



Nelle due autoproclamate repubbliche di Donetsk e Lugansk, lo scorso 11 novembre si sono tenute elezioni legislative, con la prevista conferma degli attuali governatori e con un palese intervento di Mosca. Non riconosciute a livello internazionale, la campagna elettorale ha messo in luce diverse posizioni, che vanno dall’annessione alla Russia  all’indipendenza, a un ritorno all’Ucraina con un’ipotesi federale. Sembra, comunque, farsi più lontana l’ipotesi di un possibile “scambio” tra il ritorno del Donbass all’Ucraina e il riconoscimento da parte di Kiev dell’annessione della Crimea.



Le elezioni nel Donbass hanno portato a nuove sanzioni della Ue, che si aggiungono alle circa 200 già esistenti nei confronti di persone e società, russe e ucraine, considerate complici dei separatisti o coinvolte nella questione della Crimea. Russia e Ucraina si sono, a loro volta, scambiate pesanti sanzioni, sia a persone che a società.

Problemi si riscontrano anche nell’attuazione dell’accordo di associazione tra Unione Europea e Ucraina, firmato nel 2014 dopo la cacciata di Yanukovich. In un comunicato del 9 novembre, Bruxelles riconosce i progressi fatti da Kiev nelle riforme richieste dalla Ue, ma pone in rilievo la lentezza nella riforma del sistema giudiziario e, soprattutto, nella lotta contro la corruzione.



A questo proposito, sta sollevando preoccupazione quanto accaduto a Kateryna Handzyuk, consigliere comunale che si batteva contro la corruzione. Attaccata con acido, è morta dopo undici operazioni nel tentativo di salvarla e, nello stesso giorno della sua morte, un altro attivista anticorruzione è stato ucciso con una fucilata. Questi eventi sono stati duramente condannati anche da Johannes Hahn, Commissario europeo per la politica di vicinato.

Molte critiche sta sollevando il caso di Kyrylo Vyshynsky, giornalista con doppia cittadinanza, russa e ucraina, ormai in carcere da sei mesi senza processo, che ha provocato l’intervento dell’Osce e del Consiglio d’Europa.

I russofoni del Donbass non sono l’unica minoranza che pone problemi al governo di Kiev. Una recente legge, che esclude nelle scuole lingue diverse dall’ucraino, ha provocato reazioni negative in diverse minoranze presenti nel Paese, come rumeni, polacchi, moldavi e ungheresi. Con l’Ungheria si è aperto un vero e proprio scontro diplomatico, con minacce da parte del governo ungherese di bloccare le procedure di associazione dell’Ucraina alla Ue.

La recente decisione del Patriarcato ecumenico di Costantinopoli di concedere l’autocefalìa alla Chiesa ortodossa ucraina, che dal 1686 dipende dal Patriarcato di Mosca, rischia di provocare un vero e proprio scisma. Il Sinodo della Chiesa ortodossa russa, infatti, ha deciso di recidere i legami di comunione con il Patriarcato di Costantinopoli, con inevitabili ripercussioni su tutta l’Ortodossia. Il Patriarca ecumenico di Costantinopoli è considerato un primus inter pares dalle altre Chiese ortodosse, ma da Istanbul dipendono direttamente solo alcune migliaia di fedeli, contro i 150 milioni del Patriarcato di Mosca, pari a circa metà di tutti gli ortodossi. Anche dopo un esodo consistente di fedeli ucraini, quella russa rimarrebbe la maggiore Chiesa ortodossa.

La vicenda acquista, quindi, forti connotazioni nazionali e politiche. Dopo la conquista turca di Costantinopoli nel 1453, Mosca si definì “Terza Roma”, titolo utilizzato sia dal Patriarcato che dal nascente Impero zarista. Oggi, Putin ha instaurato ottime relazioni con il Patriarca di Mosca, Kirill, e l’Ortodossia ha ripreso il suo ruolo centrale nell’identità russa. Lo stesso processo si è però avviato anche in Ucraina, dove attualmente vi sono ben tre Patriarcati ortodossi: il principale, dipendente dal Patriarcato di Mosca e con circa due terzi delle parrocchie; quello autocefalo di Kiev, costituito dopo l’indipendenza; un terzo sorto nel 1921, ridotto alla clandestinità dai sovietici e ora ritornato alla luce. Cancellata da Costantinopoli la scomunica inflitta da Mosca, questi due Patriarcati dovrebbero costituire la nuova Chiesa autocefala, aggregando anche i fedeli che decideranno di non seguire più il Patriarcato russo.

Le scelte di molti fedeli saranno, perciò, più di tipo nazionalista che religioso, accentuando le divisioni con i cittadini ucraini russofoni e mettendo in seria difficoltà chi volesse decidere solo su base religiosa. Non a caso, sia Putin che il presidente ucraino, Poroshenko, si sono immediatamente espressi, ciascuno in favore della “sua” Chiesa. D’altra parte, le implicazioni politiche sono oggettivamente notevoli, tanto più che nel prossimo marzo si terranno in Ucraina le elezioni presidenziali e in autunno quelle per il Parlamento. I sondaggi dimostrano una diffusa disaffezione e forti critiche verso gli attuali governanti e verso i “vecchi” politici in generale, preparando così uno scenario tutt’altro che tranquillizzante.