La Turchia non ha ottemperato a quanto stabilito nell’accordo di Sochi lo scorso settembre, che prevedeva l’espulsione dei militanti islamici dalla “zona cuscinetto” entro il 10 ottobre. Non solo: Erdogan non fa nulla per impedire che le provincie siriane di Hama, Latakia e Aleppo, situate sulle linee di contatto con i terroristi, vengano continuamente bersagliate dai colpi dei mortai e dei missili dei militanti di Al Qaeda che non riconoscono la tregua. Di questi insediamenti particolarmente colpita è la città di Aleppo che è situata proprio a ridosso della linea di fuoco del gruppo Tharir al Sham (al Qaeda in Siria).
È significativo che una fonte militare abbia così testimoniato all’agenzia di stampa Al-Masdar la passività dei turchi: “Abbiamo osservato che mentre [i jihadisti] facevano ripetutamente attacchi irragionevoli ad Aleppo occidentale, l’esercito turco osservava solo a poche centinaia di metri”. Di fronte a tale situazione, il Governo siriano ha deciso di rompere ogni ulteriore indugio. L’ambasciatore all’Onu al-Jaafari, durante una riunione del Consiglio di Sicurezza tenutasi venerdì scorso, ha riaffermato che “Idlib è parte integrante della Siria” e che il Governo siriano “è determinato a estendere completamente la sua sovranità su di essa quando lo riterrà opportuno, in conformità di quanto garantito dalla Carta delle Nazioni Unite e dal diritto internazionale con opportunità di lavoro politico e diplomatico”. Ciò significa — salvo accordi dell’ultim’ora — che l’offensiva per la liberazione definitiva di Idlib può ricominciare da un momento all’altro.
In questo contesto il vero pericolo, come è già successo in occasione della liberazione di Aleppo, è l’eventualità che l’Occidente continui a opporsi (con il suo potenziale bellico) alla liberazione della provincia, nonostante essa sia simile a un girone infernale amministrato da oltre 80mila terroristi di Al Qaeda. Se ciò si verificasse vorrebbe dire veramente che i leader occidentali soffrono di amnesia: in primo luogo è opportuno ricordare che il Governo siriano, pur avendo accettato precedentemente di non attaccare Idlib, è stato minacciato dagli Stati Uniti di fare una fine miserevole qualora non accetti tutta un’altra serie di condizioni che implicherebbero la perdita della sovranità del popolo siriano; in secondo luogo, è altrettanto importante ricordare che senza l’enorme apporto che l’Occidente ha fornito ai jihadisti in armamenti e paghe, la guerra sarebbe già finita e tante vite innocenti risparmiate.
Sarebbe veramente il caso che i maggiori attori internazionali che agiscono in Siria, cioè Usa e Israele, tenessero conto soprattutto dello straordinario desiderio dei siriani di ricominciare. Ciò mi è stato direttamente testimoniato da due amici che hanno da poco trascorso un lungo periodo in Siria toccando varie località, tra cui Damasco, la Valle dei Cristiani e Latakia. Dappertutto si riscontra un miglioramento generalizzato delle condizioni di vita dei cittadini nel Paese, con il conseguente ritorno di migliaia di profughi in patria, provenienti specialmente dal Libano. Sono segnalati anche centinaia di civili che continuano a lasciare Idlib attraverso il corridoio di Abu Duhur. Di fronte a così tanto desiderio di riconciliazione e di pace è abbastanza deprimente che non solo la Comunità internazionale ma che neanche l’Onu capti e non accompagni il desiderio di pace dei siriani. Molto raramente infatti l’Organizzazione si è posta in maniera indipendente e non subalterna, replicando invece solo le posizioni dei suoi più grandi finanziatori.
E proprio per trovare un accordo in un formato più ristretto il presidente turco Erdogan aveva organizzato per sabato 27 ottobre a Istanbul un vertice quadrilaterale con il presidente russo Putin, la cancelliera tedesca Merkel e il presidente francese Macron. Lo scopo era quello di ricercare un linguaggio comune per facilitare il processo politico, compiere ulteriori passi per consolidare la sicurezza e la stabilità. Purtroppo è prevalsa la solita retorica da parte di Francia e Germania e nessun mutamento di posizione. Inoltre, c’è da considerare che Stati Uniti, Iran e Israele — ovvero gli attori più importanti, che avrebbero avuto più voce in capitolo — non sono stati invitati al vertice organizzato da Erdogan. Ciò è negativo, dato che Tel Aviv, nonostante l’installazione dei missili antiaerei russi S300, si riserva il diritto di colpire in Siria le forze iraniane quando e dove vuole (e questa volta senza alcun preavviso ai russi).
A peggiorare ulteriormente la situazione internazionale, con tutte le conseguenti ripercussioni in Siria, si registra anche la preannunciata uscita di Washington dall’accordo sui missili nucleari a medio raggio “Inf”. A ruota, la Russia ha accusato formalmente gli Stati Uniti di aver diretto a febbraio un attacco di mini-droni contro la propria base aerea in Siria a Hmeimim. Il Pentagono nega, ma l’esistenza di operazioni “sotto traccia” è stata più volte documentata.
Mentre il mondo si dirige velocemente verso una pericolosa china, è singolare scoprire che il presidente degli Stati Uniti Donald Trump in precedenza aveva più volte espresso un netto giudizio negativo sulla guerra irachena, sulla guerra libica e sul conflitto siriano. Trump aveva affermato che gli interventi occidentali in questi paesi sono stati degli errori, testualmente “un casino”. La guerra siriana rispecchia un mondo sempre più diviso in cui gli errori si riconoscono, ma manca la coscienza di un fine ultimo della vita a cui riferirsi.