La natura della cosiddetta “opposizione” che amministra Idlib è più chiara: il gruppo qaedista Tharir al Sham è riuscito a riunire sotto di sé tutte le sigle ribelli, da quelle più radicali a quelle del Free Syrian Army (Fsa), giudicate “moderate” dall’occidente. La nuova unione di milizie ribelli, Wa Harid Al-Muminin (che in arabo significa “leader dei fedeli”) — una sorta di sala di regia operativa condotta da al Qaeda — ha lo scopo di “ottimizzare” le operazioni contro l’esercito siriano.



L’avvenuta fusione in un unico blocco jihadista dell’opposizione armata è stata suggellata dal cambio di effigie della bandiera a tre bande verde, bianca e nera che contraddistingueva il vecchio emblema dell’Fsa (e corrispondeva alla bandiera coloniale francese). Ora il nuovo stendardo, in sostituzione delle 3 stelle, ospita al centro una Shahada rossa, un’epigrafe religiosa che significa “non c’è dio se non Dio. Muhammad è il messaggero di Dio. Lo stesso emblema è adottato da al Qaeda, dall’Isis e dall’Arabia Saudita.



La monopolizzazione di tutte le fazioni ribelli sotto l’unica bandiera di al Qaeda è stata direttamente comunicata dal portavoce di Tharir al Sham (al Qaeda in Siria), tale Abu Khaled, in una videointervista realizzata dal giornalista Bilal Abdul Kareem.

E’ degno di nota che a non aver aderito alla coalizione jihadista sono solo le forze filoturche, la maggior parte delle quali sono impegnate a nord nella nuova offensiva di Ankara contro le forze curde nel contesto dell’operazione “Olive Branch”.

Tutto ciò è significativo: coerentemente, l’obiezione sull’offensiva dell’esercito siriano su Idlib sollevata dall’occidente per la presenza dei gruppi “moderati” di opposizione al regime, non dovrebbe più sussistere.



Tuttavia l’orientamento occidentale verso il “regime siriano” non è mutato. Il ministro degli Esteri russo Lavrov nel corso della conferenza “Il Mediterraneo: dialogo romano” (tenutasi venerdì a Roma), ha fatto notare che l’approccio occidentale alla crisi siriana soffre di “doppi standard” e mantiene posizioni precostituite. Ciò — a parere di Lavrov — accade “perché coloro che promuovono un prolungamento del conflitto pensano ai propri interessi geopolitici, e non al destino delle persone che sono state prese in ostaggio da questa crisi”.

Purtroppo, tale valutazione ha riscontri oggettivi: ci sono elementi che indicano che la coalizione guidata dagli Stati Uniti intende nuovamente rimettere sotto pressione la leadership siriana e i suoi alleati.

Washington per stringere ulteriormente il cappio sul collo del “regime siriano” ha messo in atto due nuove iniziative. La prima iniziativa, già deliberata il 26 settembre 2018 ma solo ora operativa, consiste in un nuovo pacchetto di sanzioni del ministero del Tesoro Usa, chiamato “Caesar Syrian Civilian Protection Act”. Il provvedimento, che si dice finalizzato a “rafforzare lo sforzo verso la protezione dei civili”, colpisce con pesanti sanzioni due società russe colpevoli di trasportare in Siria il petrolio iraniano.

L’agenzia di stampa internazionale Bloomberg riferisce che si tratta delle società russe Promsriereimport, una filiale del ministero dell’Energia russo e della Global Vision Group. Le sanzioni si applicano anche a due funzionari della Banca Centrale dell’Iran, che, secondo il Tesoro degli Stati Uniti sono coinvolti in questi trasferimenti.

Viene inoltre sanzionata la società iraniana Tadbir Kish Medical and Pharmaceutical Company, la Banca centrale iraniana e la Jsc World Business Bank, tutte impegnate a nascondere tramite triangolazioni finanziarie i pagamenti delle forniture di petrolio iraniano.

E’ inutile dire che il rifornimento di carburante è essenziale per l’esercito siriano per portare avanti la sua campagna contro i terroristi. Allo stesso modo, la produzione di elettricità per soddisfare le molteplici esigenze del paese, l’attività industriale, l’attività sanitaria, il riscaldamento delle abitazioni e nelle scuole durante l’inverno, dipendono direttamente dalle forniture russe e iraniane. C’è da considerare inoltre che i ricchi giacimenti di gas e petrolio al nord dell’Eufrate sono resi indisponibili perché occupati illegalmente dalle truppe statunitensi e francesi.

Infine l’altra direttiva che il governo americano ha scelto di mettere in atto — peccando invero di scarsa fantasia —, si concentra nuovamente sulle armi chimiche. In questo caso Washington ha promosso una modifica che oltrepassa i limiti del trattato di fondazione, la Convenzione sulle armi chimiche del 1997.  I nuovi poteri contemplano che l’Opcw si esprima non più solo sulla veridicità degli incidenti, ma che ne individui i responsabili. Ciò dovrebbe essere visto positivamente, ma è problematica la mancanza di indipendenza dell’Opcw. Infatti, nella maggior parte dei casi di presunti attacchi chimici, l’Opcw si è basata su indagini non indipendenti effettuate a distanza, che hanno dato per buoni i rilievi forniti dai ribelli e specificatamente dall’organizzazione White Helmet. E’ chiaro che in proposito la falsa prova della provetta con l’antrace mostrata dal gen. Colin Powell il 5 febbraio 2003 al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite dovrebbe essere di ammonimento sul rischio di reiterare “false flag” per nuove strumentali legittimazioni delle guerre.

Non dovrebbe essere così difficile indovinare cosa pensano i siriani nel veder la comunità internazionale giustificare ogni propria azione destabilizzante, con la motivazione di “rafforzare lo sforzo verso la protezione dei civili”.