La tradizione politica del Partito Democratico nordamericano è storicamente precisa e priva di ambiguità: risale a Thomas Jefferson ed era un tempo fondata sull’alleanza tra il Sud agrario e l’Ovest contro la capitale del Nord Est, New York. E quella tradizione ebbe una rottura formidabile grazie alla decisione solitaria (tra i caciqui del partito) che assunse il più grande presidente degli Usa, il troppo dimenticato Lyndon Johnson, il quale distrusse di fatto il partito al Sud inverando le grandi speranze delle popolazioni nere nordamericane e ponendo le basi di quella Great Society la cui costruzione iniziò allora nel 1964 e ancora non si è compiuta, se osserviamo l’andamento delle proteste razziali e l’odio della destra estrema contro i colored e gli ebrei, come hanno dimostrato i recenti terribili avvenimenti che hanno colpito la comunità ebraica nordamericana.



Le elezioni di MidTerm si svolgono in un clima avvelenato dalle dichiarazioni di Trump (addirittura contro uno dei fondamenti dell’american exceptionalism, ossia lo ius soli!). Trump è deciso a dar battaglia direttamente con un impegno che fa risaltare tutte le divisioni esistenti tra un Partito Democratico in via di ridefinizione della sua offerta politica e dei suoi stessi fondamenti ideali e un Partito Repubblicano su cui lo stesso presidente ha deciso di non contare come potrebbe, incerto, Trump, rispetto a un legame con la burocrazia di un partito che non soddisfa le sue voglie di protagonista assoluto e non politically correct della via politica nordamericana.



Tutto si deciderà su fronti solo apparentemente l’uno all’altro opposti. Il finanziamento della campagna elettorale che cresce sempre di più e rispetto a cui i democratici sono nettamente più generosi dei repubblicani. La business community finanziaria e anche quella industriale è chiaramente più favorevole ai democratici nonostante le recenti misure di sostanziale deregulation che Trump ha deciso in merito alla questione dei derivati, della corporate governance, nonché dei temi del cambiamento climatico.

Trump punta a una politica di rimilitarizzazione della nazione avendo come elemento distintivo la difesa dell’integrità nazionale dall’invasione culturale indotta dalle migrazioni. La colonna che marcia verso gli Usa dall’Honduras — dove il popolo muore di fame ed è desideroso ormai non più di battersi per i suoi diritti come faceva un tempo ma di fuggire senza speranza — è una metafora del futuro mondiale in campo demografico: una spinta inarrestabile vero la migrazione nell’abbandono di ogni speranza che non sia il lasciare la terra ingrata in cui si nasce. Il fallimento storico delle idee di emancipazione della sinistra.

Il fatto che Trump voglia rispondere a questa sfida certo con la giusta enfasi sulla reindustrializzazione e il contrasto alla potenza aggressiva cinese, ma anche con il dislocamento sui confini di forze militari superiori a quelle che stazionano in Afghanistan, non fa che aprirci a una visione terribile sulla decadenza della politica come polis e politeia: un destino che si abbatte non solo sull’Europa ma anche sugli Usa.

Ciò nonostante i democratici nordamericani hanno posto in essere una strategia molto diversa da quella di cui si discorre in Europa: non si sono spostati a sinistra sulla linea di Sanders (le eccezioni newyorkesi restano ciò che sono: eccezione di una metropoli che non è gli Usa), ma hanno messo in atto una strategia moderata che, mentre non approfondisce la critica ai monopoli e non raccoglie il testimone dei movimenti anti-Wall Street, enfatizza la necessità di riguadagnare al partito quella parte di classi medie che si sono spostate verso i repubblicani in questi ultimi anni.

Ciò che colpisce tuttavia della campagna elettorale è la straordinaria partecipazione politica: gli Usa sono un grande laboratorio politico e di innovazione politica sia nelle macchine dei partiti, sia nella continua trasformazione delle subculture. Il peso della finanza è tuttavia sempre massiccio, più in campo democratico che repubblicano, ed è questo il punto debole di una partecipazione e di una narrazione politica che potrebbe segnare una nuova sconfitta elettorale democratica dinanzi a una retorica e anche a un’azione di Trump tutta diretta a guadagnare quella parte di elettorato bianco e colored colpito dalla crisi economica. Certo l’economia reale va a gonfie vele, ma la tempesta della finanza e del debito non pubblico ma privato delle grandi corporation si addensa: la crisi di General Electric è emblematica e terribile. È una lotta contro il tempo. E questa lotta favorisce Trump che potrà segnare il punto prima che la crisi delle banche nordamericane precipiti.

Sul piano internazionale la vittoria di Trump sancirebbe l’apertura ancor più decisa di una nuova era del sistema di potenza dagli equilibri instabili: l’era dello scontro con la Cina e con un’Europa troppo fìlo-tedesca che sprofonda in una deflazione che il complesso militar-industriale che sorregge Trump non può che temere, a differenza dell’oligarchia finanziaria democratica, che nelle relazioni con la Cina ha costruito le sue fortune nella rendita ad alto rischio che condurrà il pianeta alla disgregazione se non sarà fermata.

Naturalmente il destino di una nazione come l’Italia, per la sua storia sempre etero-diretta e con la sempre crescente influenza della borghesia vendedora anziché di quella produttiva — che non trova piena rappresentazione come dovrebbe nell’attuale Governo —, della vittoria o della sconfitta di Trump subirà tutte le conseguenze. È inevitabile, anche se una ricomposizione più industrialista del Governo italico potrebbe far da contrappeso a una rottura delle attuali tendenze mondiali, rivolte a una reindustrializzazione e a una ridefinizione dello strapotere aggressivo della Cina molto più di quanto non si pensi e non sia compreso nell’italica terra.