Donald Trump ci ha abituato a frequenti uscite, o cacciate, di membri del suo governo, ma le dimissioni del Segretario alla Difesa, il generale dei Marines Jim Mattis, rimarranno alla ribalta per molto tempo. Non solo perché le dimissioni sono effettive dal prossimo febbraio, ma perché collegate ad altre due decisioni presidenziali che continueranno a far discutere: il rientro di metà dei militari americani dall’Afghanistan e il ritiro dalla Siria. Trump ha comunicato due iniziative così importanti, a quanto risulta, senza consultare nessuna delle altre forze impegnate sul campo: alleati Nato e le milizie curde armate dagli stessi americani.



Trump si trova ora sotto attacco non solo delle opposizioni, ma anche di esponenti di rilievo del suo partito, per non parlare della maggioranza dei commentatori, che ritengono le due decisioni deleterie e le dimissioni di Mattis un indebolimento notevole dell’Amministrazione. Mattis era considerato un collegamento “responsabile” con le forze armate e un punto di riferimento per molti alleati degli Stati Uniti, tanto che si invita Trump a nominare un nuovo Segretario che ne condivida totalmente le idee. Il problema è che Mattis si è dimesso proprio per divergenze profonde con Trump nella politica estera e nei rapporti con gli alleati.



È difficile capire il comportamento del presidente, che si avvia a essere sempre più quello dell’uomo solo al comando, posizione difficilmente sostenibile anche negli Stati Uniti, dove gli ampi poteri del Presidente sono bilanciati da quelli del Congresso e del sistema giudiziario. Come detto, una parte dei Repubblicani si è già dichiarata contraria a queste ultime decisioni presidenziali, continuando una fronda già iniziata contro l’atteggiamento di Trump verso i sauditi sia per la vicenda Khashoggi che sulla guerra nello Yemen.

I Democratici non perderanno l’occasione per attaccarlo, anche se si potrebbero sottolineare alcune analogie con il comportamento di Barack Obama. Il presidente Democratico prima decise il ritiro delle truppe americane dall’Afghanistan nel 2014, per poi aumentarne invece gli effettivi data la situazione tutt’altro che stabilizzata. Il Repubblicano, durante la campagna elettorale, aveva definito la presenza in Afghanistan un inutile spreco di risorse, finanziarie e umane, e proposto il ritiro dei militari americani. Poi, l’anno scorso, aveva deciso di rimanere e di rafforzare la presenza; ora ha deciso per il dimezzamento delle truppe dislocate in Afghanistan.



Obama aveva giustificato il ritiro dall’Afghanistan con un’improbabile fine della guerra, Trump pone alla base del ritiro dalla Siria una presunta sconfitta dell’Isis. L’uscita dal caos siriano può essere in linea con la filosofia trumpiana dell’America First e della rinuncia a essere a tutti i costi il “gendarme del mondo”, ma contraddice le ripetute asserzioni di Trump sull’importanza per gli Stati Uniti di contrastare la presenza iraniana nel Paese e di rimanere al fianco degli alleati, Arabia Saudita e Israele. La caotica situazione del Medio oriente necessita di un cambiamento di strategia, ma è difficile pensare che la soluzione possa essere un pilatesco ritiro da una situazione in buona parte creata dagli Usa. E alla quale lo stesso Trump ha dato un forte apporto, difficilmente giudicabile come positivo.

L’unica voce in favore di Trump è stata, piuttosto ovviamente, quella di Vladimir Putin, che ha definito giusta la decisione di ritirarsi dalla Siria. Ha poi aggiunto che, a differenza dei russi invitati dal legittimo governo siriano, la presenza dei militari americani è illegittima, non autorizzata dall’Onu, né, tantomeno, dal governo di Damasco. Ancora saldamente in sella grazie ai russi e malgrado gli sforzi di Trump.

La dichiarazione di Putin è piuttosto controproducente per Trump, perché rinfocolerà le accuse dei suoi oppositori di connivenza con il nemico russo e accelererà le reazioni del terzo potere, quello giudiziario. Infatti, sembra ormai vicina la fine dell’inchiesta sulle interferenze russe in favore di Trump nella campagna presidenziale e c’è da aspettarsi che le conclusioni non saranno favorevoli a The Donald.