L’Algeria, a guardare bene le carte geografiche, non è poi così lontana da Israele e dalla Palestina tutta. La protesta popolare che ha portato in strada milioni di algerini, in nome di vere elezioni e di un ricambio ai vertici dopo vent’anni di regime sotto la guida del presidente Bouteflika, qualcosa ha da dire anche alla dirigenza palestinese e a quella israeliana.



Abu Mazen, il presidente dell’Autorità nazionale palestinese, lo scorso gennaio è entrato nel quattordicesimo anno al potere. Una guida contrastata da avversari palestinesi (Hamas in primo luogo) ma anche dall’avversario israeliano per eccellenza, il premier Netanyahu. Negli ultimissimi anni anche, e non è il meno importante, dal presidente americano Donald Trump (come nel caso del riconoscimento di Gerusalemme come capitale dello stato di Israele, al di fuori di ogni trattativa con i palestinesi). Il tempo, tuttavia, continua a scorrere anche per Abu Mazen e ricorda come le ultime elezioni politiche, nei territori palestinesi, si sono svolte nel lontano gennaio del 2006. Appena qualche giorno fa, a Gaza, migliaia di persone erano scese in strada, su richiesta di Hamas, per chiedere nuove elezioni politiche. Richiesta non del tutto arbitraria, se lo stesso Abu Mazen ha parlato del suo attuale governo (in verità dimissionario) come destinato ad organizzare le nuove elezioni.



Sul fronte israeliano Benjamin Netanyahu si accinge ad affrontare l’ultimo mese di campagna elettorale, nel decimo anno di guida ininterrotta di Israele come primo ministro.

Elezioni per lui molto difficili, quelle del prossimo 9 aprile. Di fronte ha un nuovo partito, l’ennesimo della storia politica israeliana, dal nome psichedelico “Blu-Bianco”. Tuttavia, l’accoppiata tra l’ex centrista Lapid e l’ex generale Gantz riscuote consensi, almeno nei sondaggi, e parte in testa. Un colpo al prestigio di Natanyahu è giunto anche dal procuratore generale israeliano, che ha preannunciato, pochi giorni fa, la messa in stato di accusa del primo ministro per corruzione. Favori concessi al magnate delle telecomunicazioni Shaul Elovitch (sua l’azienda Bezeq che tutti in Israele conoscono) in cambio di un trattamento di favore per Netanyahu sulle piattaforme informative del gruppo. Per il primo ministro è “l’ennesimo complotto della sinistra” per screditarlo.



Più interessante il messaggio agli israeliani lanciato dai partiti di centrodestra che sostengono il governo Netanyahu: “L’unica lista realmente impegnata nella Terra di Israele deve essere grande e forte per impedire la creazione di uno Stato terrorista palestinese”. Di conseguenza, la necessità di ricompattare tutta la destra israeliana spinge il premier a blandire anche i coloni più estremisti, ai quali fa il regalo di cacciare da Hebron (giusto a 25 anni dalla strage nella Moschea Ibrahimi, per gli ebrei Tomba dei Patriarchi) gli Osservatori internazionali (carabinieri italiani compresi).

Non solo, ma a Gerusalemme è tutta una sequela di provvedimenti che dovrebbero allontanare i palestinesi da Gerusalemme est e aumentare il controllo israeliano sulla Spianata della Moschea. Ecco allora la commissione edilizia del comune di Gerusalemme bocciare, appena due giorni fa, le richieste di licenza edilizia per 20 edifici di palestinesi. Nel contempo il capo del consiglio del Waqf, che sovrintende alla spianata delle Moschee, viene punito come uno scolaretto disubbidiente e sospeso per una settimana dal poter entrare sulla Spianata.

A Gaza, invece, è sempre pugno duro dei militari israeliani in occasione delle proteste palestinesi, che soprattutto il venerdì (dal marzo dello scorso anno) animano sul confine la cosiddetta Marcia del ritorno. L’ultimo a morire un ragazzo palestinese quindicenne, che ha portato a 250 le vittime in un anno mentre i feriti sono oltre 26mila.

Cifre che si perdono nell’oblio della comunicazione internazionale, alla quale invece Stati Uniti, Israele e Arabia Saudita indicano il pericolo iraniano.

Nessuno si sorprenda poi se i vecchi equilibri di potere in Medio Oriente, di volta in volta, crollino sotto la spinta di chi da decenni li subisce.