Nel suo discorso all’Assemblea nazionale del popolo, l’equivalente del nostro Parlamento, il premier Li Keqiang ha usato toni ruvidi, parlando di un 2019 “difficile e complicato”, tanto che la Cina “deve essere preparata a una dura sfida”. Si tratta, ha spiegato Li, di fronteggiare problemi interni, a partire dalla complessità delle grandi trasformazioni in atto nel Paese, ma anche e probabilmente soprattutto esterni, con un chiaro riferimento alle tensioni commerciali con gli Usa. Intanto la disoccupazione cresce e il Pil rallenta: secondo Francesco Sisci, però, la situazione non è così drammatica e le promesse fatte dal premier, se mantenute, saranno positive.
Il Pil cinese rallenta ancora, visto che nel 2019 è previsto in crescita “solo” del 6-6,5%, mentre la disoccupazione aumenterà dal 5 al 5,5%. Come si presenta il futuro economico della Cina?
La situazione economica non è così drammatica come potrebbe sembrare, perché un Pil in aumento tra il 6 e il 6,5% rappresenta una crescita enorme in valori assoluti. L’economia cinese vale ormai i due terzi di quella americana, per cui un’economia così grande capace di crescere ancora a ritmi così sostenuti non è certo un’economia in crisi. Stiamo parlando di scendere dal 10% al 6% e, anche facendo la tara su alcune cifre esagerate, non è un danno per un’economia molto grande. Oggi la salute dell’economia cinese non è cattiva.
Quali sono, allora, i timori manifestati dal premier Li nel suo discorso?
Il problema è in prospettiva. Per un’economia come quella cinese che dipende dal commercio estero per il 50% la prospettiva di una guerra commerciale con gli Stati Uniti, come Trump minaccia da tempo, visto che sono anche il loro maggior partner commerciale, è un po’ inquietante.
Ma anche l’economia Usa subirebbe dei danni in caso di guerra commerciale con Pechino, non crede?
Ma l’import-export con la Cina è in proporzione molto minore, in generale è circa il 20% del Pil americano, e dunque l’impatto sarebbe molto minore. C’è, è vero, da chiedersi quanto gli americani potrebbero essere disposti a sopportare questa guerra, sicuramente meno dei cinesi. Al momento, comunque, non si corrono grandi rischi.
Le paure espresse da Li potrebbero essere riferite al fatto che un Paese che punta alla leadership economica mondiale rischi di non cogliere il risultato che si attende?
I tempi del programma presentato al Congresso sono problematici. Se questa Cina vuole diventare un leader economico, tutto questo crea oggettivamente dei problemi.
In che senso?
Perché l’economia cinese si muove su due livelli: è chiusa all’interno, ma vuole essere aperta all’esterno. Questo doppio canale, secondo il Dipartimento di Stato americano che lo etichetta come capitalismo di Stato, creerebbe una turbativa complessiva nel mercato globale. Se la Cina non cambia, al di là della capacità di crescere o non crescere, si creano dei problemi.
Quali?
Se cresce troppo in fretta, paradossalmente aumentano i problemi a livello globale; se cresce meno in fretta significa che il modello economico cinese non è efficiente. In sostanza, se il modello economico cinese di oggi funziona, è l’America a preoccuparsi e da qui nascono i timori di guerre commerciali.
Nel suo discorso Li ha dichiarato che la Cina cambierà le sue politiche seguendo le regole accettate a livello internazionale e aumenterà la trasparenza. Questo significa che finalmente la Cina garantirà alle imprese americane ed europee un’equa competizione con quelle di Stato cinesi?
Questo è quello che ci auguriamo e si tratta di un’affermazione politica molto importante, perché dice al Parlamento cinese che la Cina deve cambiare registro, adattarsi al sistema mondiale. Ma temo che siamo ancora lontani dai desiderata dell’Occidente.
Li Keqiang ha annunciato anche un taglio del budget militare, dal’8,1% al 7,5%: che significato ha questa riduzione?
E’ un segnale molto positivo, perché la difesa americana è preoccupata per quella che viene definita “la proiezione navale” nel Mar Cinese meridionale. Resta, poi, la minaccia cyber, un fronte molto sensibile e delicato, su cui questi numeri gettano un po’ di tranquillità, anche se i falchi americani sottolineeranno che, dato il sistema opaco, per Pechino sarà molto facile nascondere le spese per la difesa nelle pieghe del bilancio statale. A livello politico, però, la dichiarazione dice al mondo: investiamo di meno in spese militari. E questo è positivo.