NEW YORK — “Qui Nuova York, vi parla Ruggero Orlando…”. Quelli della mia generazione sono cresciuti con questa litania serale nelle orecchie e con l’immagine di quest’uomo – Ruggero Orlando – che ci salutava dall’America lontana con un ampio gesto del braccio che si perdeva nel sottofondo di qualche scorcio mozzafiato di New York… Cosa dicesse dopo quel gran saluto ci ho messo qualche anno a capirlo, visto che Orlando cominciò la sua attività come primo corrispondente della Rai da New York nel 1954. Qualche anno dopo, a dare un volto ad un’altro pezzo di mondo che potevo solo sognare, comparve anche Sandro Paternostro, da Londra, che per me voleva dire “Beatles”. Ma quel Ruggero Orlando lì e soprattutto la sua Nuova York erano un’altra cosa.



Ed ora eccomi qua, più di sessant’anni dopo Ruggero Orlando (che se ne tornò in patria nel 1970): “Qui New York, vi scrive Riro Maniscalco…”. E cosa vi scrive? Le cose che vede, sente e che si trova a vivere in questa America tanto sognata, tanto amata e perciò tanto conosciuta e tanto conosciuta e perciò tanto amata – perché come diceva Sant’Agostino, si ama solo ciò che si conosce e si conosce solo ciò che si ama.



Credo che quel “Qui New York, vi scrive Riro Maniscalco” sia successo oltre duecento volte. Per me è come se avessi scritto duecento lettere ad amici, e facendolo mi fossi soffermato duecento volte a pensare a qualcosa che stava succedendo. E’ vero, spesso capita di scrivere quel che non si è capaci di dire. Per me è quasi sempre così. Allora osservare, riflettere, tentare di giudicare e condividere diventa un’inevitabile e sacrosanta dinamica quotidiana.

Scusate, ma siamo in tempo di anniversari. L’8 marzo da voi sarà anche la festa delle donne (che qua, come detto più volte, non si celebra), ma per me sono 25 anni d’America. Volati. Arrivammo qui che eravamo (quasi) giovani, con tre bambini (quasi) piccoli, e adesso siamo una tribù sparsa per il mondo che cerca di radunarsi appena può. Siamo arrivati che l’America era stata appena consegnata nelle mani di un giovane Bill Clinton, siamo passati attraverso la presidenza di George W. Bush e quella di Obama, fino ad arrivare a Donald Trump, alla sua vittoria dopo una lotta feroce con Hillary Clinton ed alla confusione e lacerazione sociale di questi tempi. Scandali, attentati, guerre, la prorompenza di madre natura tra uragani e bufere di neve, bolle finanziarie, dramma immigrazione, esasperazione della political correctness, recrudescenze di razzismo, l’incalzare “creativo” delle tematiche di gender, “safe spaces”, “group thinking” … yes, ne abbiamo viste parecchie. Così come abbiamo visto il dipanarsi della vita nostra e altrui, con tutta la bellezza e la drammaticità che ogni vita porta con sé. E poi quelle piccole ed immense cose incredibili che per grazia di Dio ci è capitato di vivere, dalla Via Crucis sul ponte di Brooklyn alle presentazioni dei libri di don Giussani alle United Nations, al New York Encounter in questi ultimi undici anni.



E il sogno americano?

Il sogno americano è come la domanda di Cesare Pavese che ha accompagnato l’Encounter di quest’anno: “Forse qualcuno ci ha promesso qualcosa? Allora perché aspettiamo?”

Aspettiamo perché siamo fatti così. E’ iscritto nel nostro cuore. Per cancellare il sogno bisogna uccidere il cuore, e uccidere il cuore non è facile.

L’America è come se sapesse che deve custodire il sogno, ma non sa di cosa questo sogno sia fatto.

Come si fa negli anniversari, voglio fissare la memoria e lo sguardo su quel che più di ogni altra cosa dà il senso di quel che si è vissuto e si vive. Tanti anni fa don Giussani, dopo essersi fatto raccontare tutto della loro “nuova vita” americana, disse ai nostri figli: “…è per questo che amiamo l’America. Vedete, l’America è come un adolescente: pieno di desiderio, di slancio istintivo, che si appassiona, si entusiasma, corre dietro alle cose… e poi tante volte finisce per far danni, o si distrae, si stanca di quelle stesse cose… ma non si ferma… Gli manca solo una cosa, Gesù. E questo è quello che dovete portarle voi”.

Quello era il compito venticinque anni fa, questo rimane il compito oggi. E chiudo questa “festa di compleanno” con le parole di Irving Berlin, un figlio di questa terra, cioè un immigrato. Come me.

God bless America, land that I love
Stand beside her and guide her
Through the night with the light from above

From the mountains to the prairies
To the oceans white with foam
God bless America, my home sweet home

Dio benedica l’America, terra che amo
Che stia al suo fianco e la guidi
Attraverso la notte con la sua luce dall’alto
Dalle montagne alle praterie
Agli oceani bianchi di schiuma
Dio benedica l’America, la mia casa, la mia dolce casa