Chelsea Manning, l’ex analista dell’intelligence Usa nota per aver passato a WikiLeaks, l’organizzazione di Julian Assange alcuni documenti riservati del governo americano, è stata nuovamente arrestata. Questa volta Manning finisce in prigione però non per aver tradito gli Stati Uniti rivelandosi fonte di informazioni tanto preziose quanto imbarazzanti, bensì per “ragioni di coscienza”. Come riportato da La Repubblica, infatti, il Grand Jury ha deciso per il ritorno in prigione di Chelsea Manning dopo il rifiuto di quest’ultima di testimoniare al processo in corso da 9 anni ad Alexandria, in Virginia, che ha come obiettivo quello di incriminare Julian Assange per la pubblicazione dei file riservati. Il Grand Jury ha sancito che il rifiuto di Manning di collaborare costituisce un oltraggio alla corte e per questo motivo va punito con una detenzione di durata non precisata: la prigionia per Chelsea infatti continuerà “fino a quando non cambierà idea oppure fino a quando l’inchiesta del Grand Jury non sarà chiusa”.



WIKILEAKS, CHELSEA MANNING TORNA IN CARCERE

Il ritorno dietro le sbarre rappresenta per Chelsea Manning un durissimo colpo. La sua vicenda è assai nota: per la sua scelta di passare documenti top secret a Wikileaks, l’analista Usa è stata sottoposta ad un processo davanti alla corte marziale che l’aveva condannata a 35 anni di reclusione. Dopo averne scontati 7 in una prigione militare in condizioni durissime, con i primi undici mesi che il Rapporteur delle Nazioni Unite sulla Tortura, Juan Mendes, li definì “crudeli e inumani”, l’allora presidente Barack Obama decise nel maggio 2017 di graziare Manning commutando la pena dai 35 anni stabiliti dal processo ai sette già scontati. Durante il suo periodo di detenzione, Chelsea Manning tentò il suicidio in almeno due occasioni. Quell’esperienza ha segnato profondamente la “gola profonda” americana al punto che anche una volta uscita di prigione, come riferisce Repubblica, mentre era ospite a Milano del Wired Festival, Chelsea avrebbe tentato di nuovo il suicidio. Il suo rifiuto di testimoniare rischia ora di costarle carissimo: l’amministrazione Trump infatti non sembra intenzionata a fare sconti alla persona che ha svelato la faccia peggiore degli Usa nelle guerre in Afghanistan e in Iraq.

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