Dopo l’uscita a fine primavera nelle sale cinematografiche, a ridosso con la presentazione fuori concorso a Cannes, Esterno notte è arrivato su Rai 1 in tre serate – due episodi a serata. È per noi l’occasione di parlare della seconda parte dell’opera, stando alla divisione cinematografica, cioè gli episodi 4, 5 e 6 della miniserie che Marco Bellocchio ha dedicato al rapimento e all’assassino di Aldo Moro nel 1978.
Questa seconda metà conferma l’impostazione della prima, ovvero raccontare ciò che girò intorno a quei 55 giorni di prigionia, come se Moro fosse il prisma che illumina meglio le profondità di una nazione, ma se i primi tre episodi raccontavano le ossessioni della classe politica che a Moro faceva riferimento, i successivi raccontano un altro aspetto della vicenda misurandosi con la narrazione della brigatista Adriana Faranda (Daniela Marra nella 4a puntata), della moglie del Presidente della DC Eleonora Moro (una magnifica Margherita Buy: la 5a puntata è una delle vette della carriera) per chiudere con gli ultimi atti della prigionia, l’avvicinamento alla morte in cui il Moro di Gifuni incarna il senso politico e artistico di Esterno notte. Ovvero l’oscillazione – nella sceneggiatura di Bellocchio, Stefano Bises, Ludovica Rampoldi e Davide Serino – tra l’umanizzazione della vicenda e dei suoi protagonisti, fin troppo spesso ridotti a icone, a simboli di un periodo storico, e la loro trasfigurazione in chiave via via più allucinata, impressionista, in cui a ogni personaggio corrisponde un tono, un tema, un modo preciso di racconto e di messinscena che però non si chiude mai in partiti presi o compartimenti stagni, ma si apre di continuo a riletture, a vivificazioni di stile.
Per esempio, la cupezza dell’orizzonte ideologico delle Brigate Rosse si apre, anche per merito delle musiche di Fabio Massimo Capogrosso, in squarci di azione, di liberazione fisica dall’immobilità forzata di Adriana che sembra specchiarsi in quella di Moro; il dolore trattenuto di Eleonora si sfoga nelle confessioni con il prete, negli attimi in cui dice fuori dai denti ciò che pensa o immagina reazioni emotive e scomposte che non esprimerà mai, anche qui specchiandosi nel marito che nell’ultimo episodio (incredibile tour de force di Gifuni) darà vita a un monologo con un sacerdote nel quale Bellocchio immagina che Moro sfoghi tutto ciò che ha sempre trattenuto nei confronti dei propri compagni di partito, con beffarde didascalie finali sui successi di Cossiga e Andreotti.
Esterno notte si muove in maniera sempre più compiuta, complessa e precisa nei suoi rimandi interni, nella struttura solida e raffinata, tra mimesi con la cronaca e invenzione teorica e poetica, invenzione che dà notevoli strappi di stile, ma che permette pure di rendere visive le questioni ideologiche, politiche e narrative che la miniserie mette in campo: il finale quindi si pone come compimento perfetto perché inscritto in una messinscena, nella rappresentazione immaginaria che un gruppo di studenti di teatro dà della condanna a morte dell’onorevole (e che molto somiglia alle scene che quasi dieci anni dopo i fatti realizzerà Giuseppe Ferrara per il suo Il caso Moro), tassello teorico col quale Bellocchio sente la propria responsabilità di regista alle prese con un equilibrio morale sottilissimo, quello tra libertà creativa e rispetto delle persone.
Con un ritmo implacabile e puntuale, che non ha mai fretta e non deve accelerare seguendo i dettami della tv, Esterno notte tramuta la terapia psicanalitica della prima parte in una vestizione rituale, religiosa e laica al tempo stesso, come l’estrema unzione di ciò che resta della nostra democrazia e per farla non ha bisogno di accreditarsi come una versione definitiva dei fatti, anzi, sono gli scarti che dalla documentazione spostano il discorso all’immaginazione, le oscurità oniriche delle immagini di Francesco Di Giacomo e il montaggio intelligente di Francesca Calvelli, a fare del lavoro di Bellocchio un altro, importante tassello nella riflessione cinematografica di un’artista sul proprio Paese.
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