Il reato di estorsione si configura per un datore di lavoro che costringe un lavoratore, sotto minaccia di licenziamento, ad accettare condizioni peggiorative, se il rapporto di lavoro è già in atto. Lo stabilisce la Cassazione, con la sentenza n. 7128 del 16 febbraio 2024, chiarendo che va escluso che il datore di lavoro possa rispondere di tale reato se il rapporto di lavoro è assente. In effetti, non mancano casi di datori di lavoro che provano ad assumere aspiranti lavoratori “a basso costo”, a pena di non procedere con l’assunzione degli stessi, o di imporre al lavoratore già assunto, minacciando il licenziamento, condizioni peggiorative rispetto a quelle previste dal contratto di lavoro già stipulato. Ma sono due condotte diverse per le quali non sempre si configura il reato di estorsione. Ad esempio, se prospetta agli aspiranti dipendenti, al momento dell’assunzione, l’alternativa tra la rinuncia, anche parziale, alla retribuzione e la perdita dell’occasione di lavoro, si tratta di una opportunistica ricerca di forza lavoro tra categorie di soggetti non occupati, ipotesi diversa da eventuali condotte riconducibili al paradigma del delitto di estorsione, caratterizzate dall’esistenza appunto di un rapporto di lavoro già in atto.



Come spiegato da Edotto, in primis manca il requisito della minaccia perché non sussiste, prima della conclusione dell’accordo, un diritto dell’aspirante lavoratore ad essere assunto a determinate condizioni. Inoltre, sono insussistenti anche i livelli minimi salariali cui fare riferimento e un diritto soggettivo alla parità di trattamento, visto che non è consentito alcun controllo di ragionevolezza, da parte del giudice, “sugli atti di autonomia sia collettiva che individuale sotto il profilo del rispetto delle clausole generali di correttezza e buona fede, non invocabili in caso di eventuale diversità di trattamento che non ricadano in nessuna delle ipotesi legali e dividi tipizzate di discriminazione vietate“. Infine, manca anche il requisito dell’altrui danno: il mancato conseguimento di un’opportunità di lavoro non incide negativamente sulla condizione reddituale della parte.



ESTORSIONE E LICENZIAMENTO DEL LAVORATORE: COSA DICE LA CASSAZIONE

La Seconda sezione penale della Cassazione si è pronunciata accogliendo, con rinvio, il ricorso di un imprenditore che era stato condannato, in sede di merito, per estorsione continuata ai danni di alcuni dipendenti. L’estorsione, per i giudici di merito, sarebbe consistita nella prospettazione da parte del datore di lavoro ai dipendenti di non procedere con l’assunzione degli stessi se non avessero accettato le condizioni retributive imposte prima della stipula del contratto di lavoro. Ma per la Cassazione tale condotta non integrerebbe il reato di estorsione.



Viceversa, gli ermellini ritengono che vi sarebbe estorsione del datore di lavoro se questi abbia già stipulato un contratto con il dipendente e, in epoca successiva, imponga allo stesso condizioni di retribuzione peggiorative rispetto a quelle concordate, minacciando il licenziamento o dimissioni “forzate”. Infatti, in questo caso, il dipendente è portatore di un diritto soggettivo rispetto alla percezione della retribuzione nei termini pattuiti, mentre il datore otterrebbe un ingiusto profitto, individuato nella ricezione della stessa prestazione lavorativa da parte del dipendente, ma ad un costo illecitamente ridotto.

ESTORSIONE DATORE DI LAVORO, REATO SOLO CON RAPPORTO DI LAVORO GIÀ IN ATTO

Per i giudici della Suprema Corte ciò che segna il confine tra l’ipotesi e le condotte riconducibili al reato di estorsione è rappresentato dall’esistenza di un rapporto di lavoro già in atto, anche se solo di fatto o non conforme ai tipi legali. Infatti, si integra il reato di estorsione quando il datore di lavoro ha la pretesa di di ottenere vantaggi patrimoniali tramite la modifica in senso peggiorativo delle previsioni dell’accordo concluso tra le parti, minacciando l’interruzione del rapporto tramite il licenziamento del dipendente o l’imposizione delle dimissioni. A tal proposito, la giurisprudenza ricorda che il reato di estorsione viene commesso dall’imprenditore che costringe i suoi dipendenti ad accettare trattamenti retributivi deteriori e non corrispondenti alle prestazioni effettuate e, in generale, “condizioni di lavoro contrarie alla legge ed ai contratti collettivi, approfittando della situazione di mercato e ponendoli in una situazione di condizionamento morale, in cui ribellarsi alle condizioni vessatorie equivalga a perdere il posto di lavoro“, spiega Edotto.

Nel caso specifico, dunque, la decisione di merito è stata cassata, con rinvio, perché la Corte d’Appello di Palermo aveva omesso di operare il necessario accertamento, per ciascuno dei lavoratori presi in esame, rivolto a verificare se le minacce messe in atto dall’imputato: fossero dirette all’instaurazione del rapporto di lavoro a determinate condizioni o fossero rivolte, in presenza di un rapporto già avviato, anche se in nero, alla rinuncia di condizioni contrattuali convenute o ad altri diritti spettanti ai singoli lavoratori.