L’Etiopia sta affrontando una carestia e un numero di morti per fame che sta raggiungendo il livello della drammatica situazione che si verificò negli anni 80, quando ci fu una mobilitazione di iniziative benefiche come il famoso concerto Live Aid. L’Etiopia sembra condannata da una sorta di maledizione a rivivere e ad affondare nella morte, come ci ha detto Mussie Zerai, sacerdote cattolico eritreo, che vive da anni in Italia e dal 1995 si occupa di migranti e di rifugiati politici dall’Eritrea e dall’Etiopia: “Nei giorni scorsi si è ricordato il Giorno della Memoria e fare memoria del passato vuol dire che non si possono ripetere gli orrori del passato. Anche l’Africa non può essere condannata a guerre, carestie e morti per fame che continuano a ripetersi, si deve imparare dal passato per far sì che queste tragedie non si ripetano più”. Non è evidentemente quello che sta accadendo in Etiopia, dove il conflitto aperto dai separatisti del Tigrai ha portato a una emergenza sanitaria che tocca 4,5 milioni di persone su 6 milioni di residenti. A muoversi in loro aiuto sono solo le Ong cattoliche coordinate dalla Caritas, “ma è impossibile raggiungere molte zone, ad esempio quelle dove si trovano i campi profughi eritrei. Bisogna che il governo conceda l’apertura di corridoi umanitari”.
La situazione in Tigrai sta diventando sempre più drammatica, sono ormai milioni le persone che soffrono la fame, anche bambini, e si registrano stupri di massa. Le risulta?
Le difficoltà sono enormi, l’autorizzazione ad accedere alle zone di crisi è stata tardiva da parte delle autorità etiopi. Si sono accavallate troppe crisi.
Quali, esattamente?
Da una parte c’è il problema cronico della poca acqua, visto che il Tigrai è un territorio semidesertico. A ciò si è aggiunta l’emergenza cavallette, una invasione che ha devastato buona parte del raccolto. Infine, la guerra. Tutte queste calamità accavallate hanno portato il quadro generale a peggiorare nel peggiore dei modi. La carestia è devastante e ad aggravarla si è aggiunto il fatto che il confine sia stato chiuso per un lunghissimo periodo, quasi due mesi. Ci sono zone non ancora raggiungibili dagli aiuti umanitari. Siamo nel 2021 e si parla di nuovo di morti per fame. È un insulto all’umanità.
Muoiono anche bambini. Ci sono ancora combattimenti in corso?
Sì, il conflitto non è del tutto concluso, ci sono sacche di oppositori rifugiati nelle montagne, non è una guerra circoscritta in una zona particolare, sono combattimenti sparsi ovunque. La regione non si può dire pacificata e dei quattro campi profughi eritrei due non sono raggiungibili, tanto che ancora oggi non abbiamo notizie chiare sulla loro sorte.
Cioè?
Due campi si trovano a ridosso del confine eritreo. Si dice, anche se nessuno può confermarlo, che circa 10mila persone siano state deportate in Eritrea, in piena violazione della Convenzione di Ginevra. Dei restanti profughi nessuno sa in che condizioni si trovino.
Non bisogna poi dimenticare la pandemia.
Sì, sta mietendo le sue vittime e nessuno fornisce assistenza sanitaria: è un dramma nel dramma.
Il piano di aiuti della Chiesa etiope è osteggiato dal governo?
Speriamo di no. Finora sono arrivati fino a Makallé, vediamo se riusciranno ad arrivare ai confini con l’Eritrea. Parliamo di almeno 25mila persone in questi due campi, noi stiamo cercando di insistere affinché si aprano tutte le zone ai corridoi umanitari e nessuno venga lasciato abbandonato.
E l’Europa? Si sta muovendo?
Purtroppo non è stato fatto qualcosa di incisivo che spinga il governo federale etiope ad aprire anche delle inchieste, c’è bisogno di una inchiesta indipendente su tutto quello che sta succedendo, sui massacri, sulle persone scomparse. Chi sono i responsabili? Nessuno lo sa. Si parla anche di stupri di massa da parte di uomini armati e non si sa chi siano. Bisogna fare piena luce.
Questo compito non spetterebbe alle Nazioni Unite?
L’Onu dovrebbe mandare persone che indaghino, ma in questo momento la priorità è salvare le vite umane. Non si può pensare che nel terzo millennio ci sia ancora gente che muore così di fame.
(Paolo Vites)