Nello scorso novembre una tregua ha posto fine alla guerra che in Etiopia contrapponeva dal novembre del 2020 i ribelli del Tigray al governo federale di Addis Abeba e che ha provocato centinaia di migliaia di vittime e profughi. Il governo centrale è stato appoggiato in questa guerra dal dittatore eritreo Isaias Afewerki. È da notare che il primo ministro etiope, Abiy Ahmed, nel 2019 ha ricevuto il Nobel per la Pace proprio per aver portato a termine la guerra che contrapponeva Etiopia ed Eritrea fin dal 1998. Nonostante gli accordi, i militari eritrei continuano a occupare le zone di confine fra Tigray ed Eritrea, contese tra i due Stati, e ciò pone qualche rischio alla durata della tregua.
La contrapposizione con il Tigray non è l’unica che deve affrontare il governo di Addis Abeba, perché scontri sono ora iniziati nella regione di Amhara. Gli amara (la cui lingua, l’amarico, è lingua ufficiale dell’Etiopia) sono l’etnia più numerosa dopo gli oromo, cui appartiene Abiy Ahmed, e loro milizie hanno partecipato alla guerra contro i ribelli in appoggio al governo centrale. Anche qui si tratta di territori contesi tra Amhara e Tigray e gli amara sembrano temere che gli accordi firmati da Abiy Ahmed siano surrettiziamente in favore dei tigrini e a loro danno. Sullo sfondo vi è comunque anche il costante scontro tra le tre etnie, oromo, amara e tigrini, per il controllo del governo federale.
Accanto a questi focolai interni, vi è un’altra causa di conflitto, questa volta internazionale, rappresentato da un’opera che di per sé dovrebbe essere un elemento di pace: una grande diga sul Nilo. Invece, come la storia insegna fin da tempi remoti, l’acqua può diventare una causa di conflitti. La diga in questione è la Grand Ethiopian Renaissance Dam (GERD) sul Nilo Blu in Etiopia, al confine con il Sudan, la cui costruzione è iniziata nel 2011 e ora completata al 90%. Questo grandioso progetto, una volta terminato, porterà al raddoppio della produzione di elettricità in Etiopia, permettendo di ridurre drasticamente il numero dei cittadini attualmente senza possibilità di connessione.
Il progetto ha creato fin dall’inizio forti controversie con il Sudan e l’Egitto, con minacce di interventi militari che, fortunatamente, sembrano ora rientrate, ma la tensione rimane alta. Il timore di entrambi i Paesi è che la diga riduca l’afflusso di acqua del Nilo nei loro territori, posti a sud della diga. Il Nilo rappresenta per l’Egitto il 90% dell’acqua di cui abbisogna e per il Sudan, oltre che la fornitura di acqua, è importante una debita regolamentazione degli straripamenti del fiume, che si teme possa essere compromessa.
Preoccupazioni del tutto oggettive, ma di certo non cancellabili con la forza, bensì con una collaborazione fra i tre Stati nella gestione dei problemi che possono sorgere e con una condivisione dei benefici che possono derivare dalla diga e dalla connessa centrale idroelettrica. Soluzione non immediatamente facile in presenza di regimi non proprio concilianti come quelli in discussione. Tuttavia, negli scorsi giorni sono ripresi al Cairo i contatti tra i tre Paesi, complicati però dal conflitto interno al Sudan. A parere di molti commentatori è difficile che si raggiungano risultati concreti, ma quantomeno sembrerebbe allontanato il pericolo di ulteriori conflitti, con la possibilità almeno di delineare ipotesi per accordi futuri. Tanto più che la diga c’è e una sua distruzione sarebbe catastrofica per i due Paesi a sud di essa.
L’Italia ha un interesse diretto nella questione, dato il ruolo protagonista dell’italiana Webuild, già Salini Impregilo, nella costruzione della diga. Opportuna, perciò, la visita in Etiopia lo scorso aprile di Giorgia Meloni, nell’ambito del cosiddetto “piano Mattei” per l’Africa. Un ritorno, che ci si augura importante e costruttivo, in quelle che furono nostre colonie, particolarmente in un momento in cui altre ex potenze coloniali, come la Francia, si stanno ritirando dall’Africa lasciando dietro di sé una serie di conseguenze negative, con costi che ricadono anche su di noi.
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