Il cosiddetto Corno d’Africa, una volta colonia italiana, formato da Etiopia, Eritrea e Somalia, da sempre martoriato da regimi dittatoriali e da guerre sanguinarie, rischia dopo una brevissima parentesi di sprofondare di nuovo in un conflitto che potrebbe allargarsi anche a Stati come l’Egitto e il Sudan, aprendo una nuova, profonda ferita in Africa. La ragione è legata alla ribellione della popolazione residente nella zona del Tigray, in Etiopia, che fino a un paio di anni fa, benché minoranza, aveva governato il paese con un regime durissimo filo-marxista, deposto grazie all’intervento di Abiy Ahmed, che aveva spodestato i tigrini dal potere e posto fine alla guerra con l’Eritrea, tanto da meritarsi il Premio Nobel per la pace. Tigrini che adesso hanno però rialzato la testa, arrivando sabato scorso a bombardare con un lancio di missili la capitale dell’Eritrea, Asmara: “Una provocazione per cercare di coinvolgere l’Eritrea – spiega Mussie Zerai, sacerdote cattolico eritreo, che vive in Italia dove si occupa di migranti e di rifugiati politici dall’Eritrea e dall’Etiopia – la quale Eritrea ha sempre detto di non voler entrare nel conflitto in corso”. Ma la situazione in Etiopia è incandescente anche a sud e a ovest, dove altre popolazioni si stanno ribellando. Persone armate hanno fermato un pullman e ucciso almeno 34 persone a bordo nella regione di Benishangul-Gumuz, nell’ovest dell’Etiopia, dove nelle ultime settimane sta montando la violenza interetnica. “È necessario l’intervento dell’Onu – aggiunge Zerai -, purtroppo la situazione di stallo degli Stati Uniti non aiuta, ma se non ci si siede attorno a un tavolo di pace c’è il rischio che la regione si trasformi in una polveriera che può coinvolgere anche Egitto, Sudan e Somalia”.
Come mai questo lancio di missili su Asmara? È un tentativo di coinvolgere l’Eritrea nel conflitto civile etiope?
Penso di sì. I tigrini hanno accusato l’Eritrea di essere coinvolta nel conflitto, di essere alleata con il governo centrale etiope. Non so se c’è evidenza di questo coinvolgimento, ma hanno motivato l’attacco in questo modo. Il rischio è di allargare il conflitto senza sapere dove porterà tutto questo.
L’Eritrea ha reagito in qualche modo?
Finora non abbiamo notizie di una reazione, il governo eritreo aveva detto di non voler essere coinvolto, spero che restino fuori per evitare l’allargamento di questo conflitto. Abbiamo già pagato un altissimo prezzo nella guerra del 1998-2000.
La minoranza del Tigray ha detenuto il potere con un regime molto duro per trent’anni e sappiamo anche che l’attuale presidente dell’Oms, Tedros Gebreyesus, è accusato di fare il gioco della Cina coprendone le responsabilità sulla diffusione del Covid.
Questo lo dicono le accuse degli Stati Uniti, non sappiamo se è davvero così. Il fatto che sia tigrino non significa molto, anche tutta l’Etiopia è coinvolta con la Cina, quasi tutta l’Africa purtroppo è finita nelle mani cinesi. La cosa importante è tornare a sedersi a un tavolo per un cessate il fuoco, aprendo corridoi umani che permettano di raggiungere le popolazioni colpite e che si trovi una soluzione pacifica in tutta l’Etiopia.
L’episodio del bus attaccato a ovest del paese che ha causato 34 morti cosa significa? Ci sono altre aree di ribellione al governo centrale?
Sì, non c’è solo il problema del Tigray. Anche nel sud divampano le proteste, non un conflitto, ma vari attentati. L’Etiopia non trova pace.
Il presidente Abiy Ahmed non riesce a garantire la pace e l’unità del paese?
È così, l’errore è stato concedere nella Costituzione stati regionali che hanno diritto perfino alla secessione. Questo alimenta ogni tipo di scontri, ogni regione vuole più autonomia, ci sono tanti interessi economici, geopolitici, ed entrano in gioco anche attori esterni. Il male sta nella Costituzione stessa, che ha previsto questo tipo di organizzazione federalista, e questo per un paese che è uscito da guerre decennali è un problema.
Anche l’Egitto guarda con preoccupazione all’Etiopia per il progetto di costruzione di una diga sul Nilo che ridurrebbe l’apporto di acqua. Che cosa si rischia?
Il rischio di diventare una polveriera è altissimo, siamo davanti a tregue fragili e quanto ottenuto negli ultimi due anni e mezzo adesso potrebbe naufragare bruscamente. È urgente che l’Onu intervenga, ma di certo non aiuta la fase di stallo in cui si trovano gli Stati Uniti. Ci vorrebbe un intervento energico per obbligare tutte le parti coinvolte a ragionare e a fermare le armi per trovare soluzioni pacifiche prima che vengano coinvolti altri paesi e si arrivi a migliaia di vittime. Già 25mila persone sono dovute fuggire in Sudan.