Perché ricordare Eugenio Corti (1921-2014)? Certamente nel corso di quest’anno ci sono state delle ricorrenze significative: lo scorso febbraio sono passati dieci anni dalla sua morte e lo ha raggiunto in cielo, proprio pochi giorni prima di questo importante decennale, la sua amata moglie, Vanda di Marsciano, musa ispiratrice e compagna senza la quale, come lui stesso ha più volte dichiarato, le sue opere non avrebbero potuto raggiungere la bellezza che le contraddistingue.



Tuttavia, le ricorrenze servono a poco, soprattutto per un autore come lui, spesso ostracizzato dalla cultura dominante, se non vengono sfruttate per riflettere seriamente sul valore della sua opera. La scorsa estate una mostra al Meeting per l’amicizia fra i popoli ha cercato appunto di evidenziare e rilanciare l’importanza del suo capolavoro, Il cavallo rosso, a quarant’anni dalla sua prima edizione. Ora tale mostra, Il cavallo rosso di Eugenio Corti. Le prove della storia, il lievito della vita, è diventata itinerante e sarà allestita a Magenta dal 3 all’11 aprile, presso Casa Giacobbe.



A volerla sono stati il Centro culturale don Cesare Tragella, la Comunità pastorale e il Comune di Magenta, con la collaborazione di altre associazioni (Diesse Lombardia, Associazione Culturale Tu Fortitudo Mea, Centro studi politico-sociali John F. e Robert F. Kennedy). È significativo che società civile, istituzioni religiose e laiche, insieme, siano all’origine di tale iniziativa perché Eugenio Corti, cattolico praticante, che ha concepito la propria professione di scrittore come via per rendere gloria a Dio, ha sempre ritenuto altrettanto fondamentale vivere intensamente la dimensione sociale e politica. La ricerca del vero e del bello, che ha contrassegnato la sua esistenza e la sua produzione letteraria e saggistica, ha anche definito il suo impegno per la costruzione di una società umana diversa da quella generata dalle ideologie novecentesche, rivelatasi inevitabilmente, laddove esse hanno preso il sopravvento, un vero e proprio inferno sulla terra.



Il cavallo rosso è sicuramente, infatti, un grande romanzo storico che abbraccia una parte importante della storia del Novecento: in esso emergono in modo tragico le pagine sulla Seconda guerra mondiale, in particolare quelle dedicate alla ritirata di Russia, ma, in modo non meno significativo, anche quelle della ricostruzione del dopoguerra, nelle quali si arriva a delineare la nuova società consumistica che si sarebbe affermata con il Boom economico e con gli anni Settanta. La ricchezza di queste pagine non sempre è stata però colta adeguatamente dalla critica, cosa che non si può dire dei lettori, visto l’enorme successo avuto con ben trentasei edizioni, quasi una all’anno.

Spesso Eugenio Corti è stato considerato uno scrittore anticomunista, motivo per il quale ha faticato a emergere in un contesto contrassegnato da un’egemonia culturale marxista, ma, al di là delle polemiche di carattere politico oggi forse superate, si tratta sicuramente di una definizione riduttiva. Egli è stato certamente un critico del comunismo, sia per quanto riguarda la sua formulazione teorica, sia per quanto riguarda le sue realizzazioni storiche. Proprio il desiderio di conoscere a fondo la natura del comunismo, in particolare nella sua versione sovietica, lo ha spinto, come accade anche a uno dei protagonisti del romanzo, Michele, a chiedere di essere mandato sul fronte russo.

Inoltre nella sua produzione non mancano poi studi e saggi importanti anche sul tremendo esperimento comunista della Cambogia di Pol Pot, forse tra i primi a denunciarne la natura di lager a cielo aperto. Tuttavia, il suo orizzonte di comprensione della storia del Novecento è caratterizzato da una prospettiva ben più ampia che potremmo definire con questa formula: egli è anticomunista perché è antitotalitario. L’uomo, se non si riconosce come dipendente da Dio, cioè se non comprende di dipendere da una dimensione trascendente, da qualcosa di ben più grande di lui, metastorica e ultraterrena, finisce per dipendere totalmente dallo Stato, che inevitabilmente, qualsiasi sia il colore dell’ideologia, nella misura in cui diventa un idolo, un falso Dio, si trasforma nel Grande Fratello orwelliano.

Le pagine del Cavallo rosso denunciano, infatti, oltre alle tremende condizioni nelle quali si trovano le popolazioni dell’URSS, anche le orribili nefandezze compiute dai nazisti, interpretate come conseguenze inevitabili del medesimo progetto – per quanto diverso – di costruzione di una società senza Dio. Nel romanzo è lo scrittore Michele, uno degli alter ego di Corti, che si prefigge di realizzare un’opera nella quale “far confluire – tramite le vicende, le scoperte, le conversazioni dei personaggi – i fili del processo di scristianizzazione che, iniziatosi ancor prima dell’evo moderno, aveva portato ultimamente ai forni crematori di Auschwitz e al cannibalismo di Crinovaia e degli altri lager (e non solo lager) sovietici”.

Penso sia corretto poter dire che si tratta di una prospettiva che coincide con l’intento stesso dell’autore brianteo. Non è però solo un intellettuale come Michele, attraverso i propri studi, la propria insistente ricerca sul campo, a cogliere le vere origini del male, è anche un povero operaio come Pierello, aiutato dall’educazione ricevuta dalla Chiesa, grazie alla propria esperienza al fronte, a formulare un giudizio analogo: “Lo invase un acutissimo senso di ribellione: che ci aveva a che fare lui [Pierello] con questa guerra di sterminio tra popoli privi di carità, privi di Dio? Gli uni e gli altri avevano respinto Dio – come s’esprimeva don Mario là a Nomana – ed eccone qui i frutti: eccoli, sì, lui li aveva precisamente sotto gli occhi. Doveva decidersi una buona volta a piantare questa gente, gli uni e gli altri, e questi posti. Qui sembrava non esserci, per i tedeschi sconfitti come per i russi vincitori, che la morte: una morte che si riorganizzava continuamente da sé stessa, con un’efficienza diabolica”.

Questo giudizio non vale solo per le pagine della guerra. Anche quelle dedicate alla ricostruzione e alla rinascita dell’Italia sono attraversate dallo stesso dramma personale: vivere cercando di affermare un progetto, per quanto ritenuto e presentato come nobile, tendente a ricondurre a forza la realtà alla misura della propria ideologia; oppure vivere riconoscendo Dio, una dimensione ideale, misteriosa ma reale, senza la quale la ricerca della verità, il desiderio di libertà, di bene e di giustizia diventano pretesa e finiscono per deformarsi e trasformarsi nel loro contrario. In queste pagine la stessa vita della Chiesa è segnata tragicamente dallo stesso rischio: anche gli uomini di Chiesa possono tradire la propria vocazione e cedere anch’essi all’ideologia.

Quella di Corti è pertanto una lettura della storia del Novecento che si può definire antropologica: al centro vi è l’uomo con la sua domanda di verità. I personaggi, sia quelli storici sia quelli inventati o verosimili, incarnano in modo singolare e realistico, dentro le circostanze della propria esistenza, la domanda di significato sulla propria vita, che non può prescindere dall’interrogarsi sull’origine del male e sulla propria responsabilità, sulla misura da seguire per vivere: quella imposta dal potere dominante o quella di Dio che, cristianamente, prende il nome di Provvidenza.

Una lettura antropologica quindi che sfocia inevitabilmente in una prospettiva teologica. Potremmo dire che, come per Augusto del Noce – che lo stesso Corti considerava una delle menti più significative della cultura italiana – anche per lo scrittore la storia del Novecento è una storia filosofica. Certo una filosofia, come per la grande tradizione classica e medioevale, che sfocia naturalmente, con la domanda su Dio, in teologia. Cornelio Fabro, altro intellettuale con il quale Corti intrattenne un significativo rapporto, documentato anche da un importante scambio epistolare, considerava, infatti, Il cavallo rosso “un poema spirituale”, capace di raccontare la “passione di una umanità cristiana, non prometeica”, e lo definiva “il romanzo del trionfo del bene sul male, ma non qui sulla terra […] bensì nella luce eterna di Dio, che non conosce tramonto”. Lo stesso titolo del romanzo e la divisione nelle tre parti che lo costituiscono, con il loro richiamo esplicito all’Apocalisse, lo confermano.

Proprio la densità teologica e filosofica dell’opera di Corti, in particolare delle pagine del Cavallo rosso, hanno spinto gli organizzatori dell’iniziativa magentina a invitare, per riflettere sulle pagine di questo capolavoro – mercoledì 3 aprile, alle ore 21:00, presso il cinemaTeatroNuovo di Magenta –, il filosofo Paolo Pagani, docente di filosofia morale alla Ca’ Foscari di Venezia. Nella stessa serata, sullo stesso palco, l’attore Matteo Bonanni leggerà alcune delle più significative pagine del Cavallo rosso e un coro alpino, formato da un gruppo di studenti dell’Università Cattolica, interpreterà alcuni canti della tradizione, nello spirito dell’opera cortiana, per il quale verità e bellezza non possono e non devono mai essere separati.

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