Che la giornata di ieri in Eurolandia non sarebbe stata non ordinaria lo si era intuito fin dal primo mattino: dall’incredibile show mediatico di Valdis Dombrovskis, vicepresidente esecutivo Ue delegato alla vigilanza sulle finanze pubbliche dei 26 Paesi-membri, sui due maggiori quotidiani italiani. Solo di poche ore dopo è stato l’annuncio-choc delle dimissioni di Jens Weidmann dalla presidenza della Bundesbank. 



Seguire il timetable della giornata può essere utile a interpretarla. Dunque: su uno dei due principali quotidiani italiani Dombrovskis si è affacciato in prima pagina firmando un op-ed in coppia con Paolo Gentiloni, commissario agli Affari economici che a Bruxelles fa riferimento diretto all’ex premier lettone. “L’Europa cambi per crescere” è il titolo dell’intervento (il sottolineato è di chi qui scrive). All’interno la linea è ribadita: “Si apre la discussione sulle nuove regole di bilancio Ue / Cambiare per crescere”.



Sull’altro quotidiano, principale concorrente in Italia, il volto baltico di Dombrovskis (intervistato da solo) sorreggeva invece in prima pagina questo titolo: “I Trattati Ue non si cambiano: il patto di Stabilità ha funzionato” (idem il sottolineato). La rassegna stampa completa ha ricompreso anche un’intervista del Sole 24 Ore al solo Gentiloni, con questa headline: “Il patto Ue va adattato alla necessità di investire nell’economia”.

Il caso politico-mediatico non sembra aver bisogno di alcun commento: salvo segnalare l’involuzione dell’Europa istituzionale non meno di quella giornalistica.



Nel merito politico-economico, Dombrovskis – noto “ufficiale di complemento” rigorista al servizio dell’eurocrazia germanocentrica, egemone da almeno un decennio – è risbucato sulla scena dopo un lungo silenzio: in curioso tandem con l’altra supercommissaria Ue, Margrethe Vestager. Sempre ieri, l’ex vicepremier danese – storica “falca” dell’Antitrust, in predicato di diventare Presidente della Commissione nel 2019 – in un’intervista “ridipinta di verde” su uno dei due quotidiani italiani suddetti ha lasciato intendere di voler chiudere almeno un occhio sulla proroga degli ultimatum sugli aiuti di Stato (fra i dossier c’è anche la riprivatizzazione di Mps). Non ancora “colomba” ma quasi: la frugalissima Vestager sente forse odore di rimpasto anticipato della Commissione Ue. Magari in occasione dell’entrata in carica della coalizione “semaforo” in Germania: che – salvo colpi di scena – dovrebbe rispedire all’opposizione dopo 16 anni – l’unione Cdu-Csu, il partito merkeliano che due anni fa ha imposto a Bruxelles Ursula von der Leyen.

Chi invece rimane “tutto d’un pezzo” – certamente con onore al merito sul piano personale – è invece il generale della Buba, il vero carabiniere dell’euro. Il passo indietro di Weidmann, tre settimane dopo la svolta elettorale a Berlino, ha bucato tutte le breaking news della giornata internazionale. E non è facile separare l’atto di dignità e fedeltà istituzionale (quasi militare, oltre ogni possibile fraintendimento) del primo “civil servant” tedesco dell’era Merkel da quello che è probabilmente – anche – un “gran rifiuto”; un’assunzione di piena responsabilità di un disaccordo. Un gesto preventivo e a suo modo trasparente, benché carico di d significati politici.

Un precedente diretto – lontano ma non troppo – riguarda Karl Otto Pohl. Presidente della Buba dal 1980 – insediato dal cancelliere socialdemocratico Helmut Schmidt – Pohl è stato nella cabina di regia del marco nel decennio cruciale per la gestazione dell’euro. Lo rimase anche negli undici mesi – forse ancor più incandescenti – che andarono dalla caduta del Muro di Berlino alla riunificazione delle due Germanie: il capolavoro storico del cancelliere cristiano-democratico Helmut Kohl. Quest’ultimo – con un passo che solo i giganti possono permettersi – prese la decisione di concambiare alla pari l’ostmark con il marco “occidentale”. Una scelta di squisito e massimo livello politico (i tedeschi dell’Est dovevano ripartire su un piede di parità monetaria nella Germania riunita), ma per nulla giustificata dai fondamentali economici delle due Germanie. Il presidente della Buba obbedì: prese atto, ma si dimise. 

Non è fuori luogo immaginare che Weidmann abbia voluto per alcuni versi seguire le sue orme. Dopo dieci anni trascorsi come Herr Nein (quasi sempre in minoranza, qualche volta quasi da solo) nel consiglione Bce presieduto dall’espansionista Mario Draghi, Weidmann prende atto che l’era Merkel è finita (e anche quella del “superfalco” Wolfgang Schauble nel bunker delle Finanze a Berlino). Il presidente della Buba ha visto l’ex “collega” Draghi rivestire i panni del leader politico europeo e dettare il Recovery Plan. Ha infine letto sui giornali che il prossimo Governo tedesco avrà come pilastro la Spd – dell’ex vicecancelliere Olaf Scholz – e come partner i verdi e i liberaldemocratici. Il “contratto” della coalizione “semaforo” è ancora tutto da scrivere: e il principale interrogativo riguarda la compatibilità fra l’approccio non più rigorista della “nuova Spd”, quello neo-keynesiano dei Verdi (in chiave NextGenerationEu) e quello invece più ortodosso di Fdp (il cui leader Christian Lindner potrebbe divenire il nuovo ministro delle Finanze). Una sola cosa è già certa: il soldato Weidmann non ci sarà più. Né a Berlino, né a Francoforte.

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