I Capi di Stato e di Governo dell’Unione europea si sono riunioni il 21-22 ottobre per effettuare un tentativo di elaborare una posizione comune su alcuni importanti temi di politica economica internazionale: migrazioni, energia, clima. Il Consiglio europeo ha avuto luogo alla vigilia di due altri appuntamenti internazionali, la riunione del G20 di fine ottobre a Roma e, poco dopo, la COP26 di Glasgow, che vedranno entrambi un importante ruolo dell’Italia.
I leader dell’Ue si erano riuniti solo quattro mesi fa. In questo breve arco di tempo, il quadro europeo e internazionale ha avuto una profonda trasformazione. Da una parte, le relazioni transatlantiche sono ancora alla ricerca di un equilibrio. Dall’altra, l’Europa tenta di voltare pagina dopo la fase acuta della pandemia e si trova a dover affrontare altre sfide sia sul significato stesso dei “valori comuni” (il contrasto con la Polonia), sia di impatto concreto quali l’aumento dei prezzi dell’energia e le questioni aperte per una ripartenza sostenibile a livello globale.
I risultati del Consiglio appaiono ben inferiori alle aspettative. I 27 Capi di Stato e di Governo sono rimasti inchiodati a discutere di immigrazione per oltre cinque ore. L’agenda prevedeva unicamente un punto di discussione sul finanziamento dei progetti di sviluppo nei Paesi d’origine (dei migranti) decisi al Consiglio di giugno. Bene, otto piattaforme di progetto vengono approvate, ma Polonia, Ungheria, Slovenia, Repubblica Ceca fanno fronte comune con la Danimarca, e anche con la Grecia e altri interessati al confine orientale. In tutto sono dodici Stati membri, gli stessi che tempo fa hanno firmato una lettera per chiedere fondi europei per costruire muri anti-migranti al confine. Sono riusciti a far sì che questo tema diventi prioritario per gli altri leader europei che condividono i timori sull’uso “strumentale” dei migranti da parte della Bielorussia contro l’Ue, come sottolineato dal presidente del Consiglio italiano Mario Draghi, nella conferenza stampa successiva al Consiglio. Si è riusciti a mala pena a sventare il tentativo di usare i fondi comunitari per innalzare le barriere. Nel commentare l’accaduto si è parlato di “offensiva della propaganda sovranista”.
Occorre prendere contezza della dimensione sia politica che economica del problema. Sotto il profilo politico, gran parte degli Stati al confine orientale dell’Ue sono entrati nell’Unione il primo maggio 2004 non solo per avere una “patente internazionale” di rispettabilità, ma anche e soprattutto perché si erano staccati, singolarmente e progressivamente dall’Urss, perché rivendicavano i loro valori e identità nazionali. Ai margine dei lavori del Consiglio, la Cancelliera tedesca uscente Angela Merkel ha ricordato che, nell’aderire all’Ue, questi Stati hanno firmato, sottoscritto e ratificato Trattati che precisano quali sono “i valori comuni” dell’Ue. I trattati, però, si interpretano. E le interpretazioni possono essere molteplici e divergenti. Per diversi anni – ritengo – avremo a che fare con i nazionalismi degli Stati dell’Est e di quelli crescenti anche nel nucleo originale dell’Ue.
Sotto il profilo economico, l’ondata migratoria verso gli Stati orientali dell’Ue è un fenomeno nuovo e che ha forti implicazioni su economie di piccole dimensioni (Danimarca. Ungheria, Repubblica Ceca, Grecia, Slovenia) oppure in fase di un profondo riassetto strutturale (Polonia). Piuttosto che criticare questi Stati quasi “a prescindere” sarebbe stato utile prendere questa occasione per elaborare una politica e una strategia europea nei confronti dell’immigrazione con regole comuni in materia di corridoi umanitari e di riparto dei migranti tra i vari Stati dell’Ue. È quanto chiede da vari anni l’Italia per voce di Governi di differente colore ed orientamento politico. Il vertice avrebbe dovuto cogliere la palla al balzo e non lo ha fatto. Sarebbe stato un primo importante punto di politica economica internazionale comune.
In materia di politica di approvvigionamento energetico e di costi crescenti dell’energia, occorre ricordare che non è la prima volta che l’Ue tenta di mettere in atto una politica energetica comune. Agli inizi del processo d’integrazione europea nel 1957, nell’Europa in via integrazione a sei Stati membri c’era un’istituzione preposta all’uopo, l’Euratom, che avrebbe dovuto promuovere energia atomica a fini civili. Sappiamo come andò a finire. All’inizio degli anni Settanta del secolo scorso, un nuovo tentativo venne effettuato, senza successo, dalla Comunità a undici Stati membri quando l’Opec decise di aumentare rapidamente i prezzi del petrolio e di limitarne l’offerta. Allora, dopo un breve sforzo di parlare all’unisono, i singoli Stati membri, e le compagnie petrolifere partecipate da alcuni di loro, preferirono interloquire singolarmente con le loro controparti dei Paesi produttori di petrolio. Andrà meglio oggi?
Su questa testata, Marco Fortis, dell’Università Cattolica di Milano e vicepresidente della Fondazione Edison, ha illustrato che il problema immediato è l’eccessiva dipendenza dal gas russo, una dipendenza che colpisce in modo differente i vari Stati dell’Ue e che è particolarmente severa per la Repubblica Federale Tedesca. L’aumento dei costi energetici, però, potrebbe alimentare nel 2022 una spirale inflattiva in tutta Europa. Il comunicato conclusivo della riunione del Consiglio è, soprattutto un invito alla Commissione a studiare il problema e formulare proposte. Vedremo se l’anno prossimo queste proposte saranno l’avvio di un tentativo, più solido dei precedenti, dell’inizio di una politica energetica comune.
In tema di ambiente e cambiamento climatico, il comunicato finale recita: “In vista della COP 26 di Glasgow il Consiglio europeo chiede una risposta globale ambiziosa ai cambiamenti climatici. È essenziale fare in modo che l’obiettivo di limitare il riscaldamento globale a 1,5 ºC rimanga raggiungibile. Il Consiglio europeo invita pertanto tutte le parti a proporre e attuare obiettivi e politiche nazionali ambiziosi”. Non si sa se si è discusso dei progressi del programma di raggiungere la neutralità climatica al 2050 e il taglio delle emissioni di gas a effetto serra al 2030 di almeno il 55% rispetto ai livelli del 1990. È tema difficile dato che numerosi Stati membri stanno acquisendo consapevolezza dei costi di transizione che tale obiettivo comporta.
In breve, al temine del Consiglio, si ha la sensazione che la ricerca di una politica internazionale dell’Ue non è ancora iniziata. Con una Germania priva di governo e una Francia già in campagna per le presidenziali manca un traino.
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