L’Unione europea non è a proprio agio in tempo di crisi. Sorride e prospera quando il tempo è bello e il sole splende, ma sembra sfaldarsi quando si deve dare una risposta ai temporali. Lo si è visto durante la crisi finanziaria del 2008-2009 e più di recente con l’arrivo disordinato di migliaia di migranti. Due momenti caratterizzati da recriminazioni reciproche tra gli Stati dell’Ue. Di fronte a uno tsunami come quello della pandemia del coronavirus, l’Ue si trova a un vero e proprio bivio: o rimettersi sulla strada di una “unione sempre più stretta”, riprendendo, sostanzialmente il cammino (senza dubbio difficile) del più ardito progetto d’integrazione politica mai lanciato o scegliere un altro percorso che potrebbe andare verso quella che un tempo veniva chiamata “l’Europa delle Patrie” o andare verso la dissoluzione di quanto faticosamente costruito in questi ultimi decenni.
Il prossimo Consiglio europeo – l’assise dei Capi di Stato e di Governo – fornirà un’indicazione della strada che l’Ue sta prendendo. Il Consiglio deve fornire la risposta “europea” alle implicazioni sanitarie, economiche e sociali di una pandemia che sta costando migliaia di vite umane e sta gettando l’Ue in una grave recessione, che inevitabilmente colpirà più severamente i Paesi che sono più deboli e che, anche a causa di errate politiche economiche, hanno i più alti debiti pubblici (in rapporto ai Pil nazionali) e le economie meno dinamiche (ove non stagnanti da decenni).
Sinora le risposte alla pandemia sono state il ripristino di frontiere, vincoli alla circolazione di persone, accuse reciproche e in alcuni Paesi (non solo in Ungheria) svolte autoritarie striscianti con svilimento dei Parlamenti e dell’opposizione e utilizzazione impropria delle televisioni pubbliche a fini di propaganda anche personalistica. In questo quadro confuso, si sono inserite la Cina e la Russia, con l’invio di quelli che possono essere chiamati “doni avvelenati” di prodotti medici e di “consiglieri”, con il chiaro intento di minare l’Ue e sostenere i Governi con maggiori tendenze autoritarie.
L’Ue non ha sinora colto questa crisi come un’opportunità per rafforzare la cooperazione nell’ambito della sanità. Lasciando le politiche sanitarie nell’ambito dei singoli Stati dell’Unione, che delegano quasi sempre – come doveroso – a livelli più bassi (Regioni, Lander, Distretti) e più vicini ai cittadini, sarebbe stato opportuno prendere due misure: a) rafforzare, e utilizzare meglio, il piccolo European Center for Disease Control and Prevention (Ecdcp) e farlo diventare un vero hub per scambiare informazioni e dati tecnico-scientifici in materia sanitaria; b) utilizzare la forza di un’Ue con 446 milioni di abitanti per acquisti coordinati (a anche centralizzati) di attrezzature e prodotti medico-sanitari alle condizioni migliori. Ciò avrebbe dimostrato non solo che l’Europa c’è e agisce, ma avrebbe contenuto le infiltrazioni di Cina e Russia in campi Ue (sminuendo anche il ruolo e le ambizioni di quelli che un tempo venivano chiamati “utili idioti”) e dato corpo al giovanissimo ResEU, l’ente creato un anno fa per dare una risposta europea alle crisi.
Ciò avrebbe soprattutto inserito in un quadro politico la soluzione alla diatriba economica che si trascina da settimane: la richiesta di Paesi più deboli (come Italia, Spagna e altri della sfera mediterranea) di aiuti straordinari per superare la crisi sanitaria ed economica.
Dopo due lunghe riunioni dell’Eurogruppo, due punti squisitamente politici sono stati inviati ai 27 del Consiglio europeo: a) l’utilizzo del Meccanismo europeo di stabilità (Mes) e b) la definizione del “fondo per la ripresa” (nel cui ambito ci potrebbero essere anche strumenti innovativi come gli eurobond).
Sul Mes, l’Eurogruppo ha raggiunto un compromesso ambiguo. Sino a quando dura l’emergenza, le linee di credito precauzionali “saranno aperte a tutti gli Stati”, in misura pari al 2% del loro Pil, per finanziare i costi sanitari, diretti e indiretti, ma non per le altre spese socio-economiche legate all’emergenza. L’accordo e lo statuto del Mes prevedono, comunque, vigilanza sull’impiego dei fondi. Le conclusioni della riunione sottolineano che la “condizionalità” (impegno a politiche di riassetto strutturale) tornerà a essere una caratteristica del Mes, una volta terminata l’emergenza. Per avere accesso ai finanziamenti Mes, lo Stato interessato deve fare esplicita richiesta. Il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, ha già detto che l’Italia non intende rivolgersi a questo strumento, anche per evitare uno scontro all’interno della maggioranza oltre che il furore dell’opposizione. Potrebbe essere un errore anche perché metterebbe Roma nell’angolo ove l’Ue andasse verso le due misure “sanitarie” delineate in precedenza.
Ancora più vago l’accordo sul “fondo per la ripresa”. Non è dato sapere se c’è una proposta tecnica strutturata (predisposta, presumibilmente dalla Francia) su cui possano lavorare gli sherpa e se tale proposta includa eurobond. L’opposizione a tali bond non è tecnica: molte unioni monetarie hanno avuto, e hanno, titoli a responsabilità condivise; a fine aprile, l’Amsterdam Center for European Studies ha pubblicato un bel lavoro di Lorenzo Codogno e Paul van dem Noord in cui si dimostra che gioverebbero tanto agli Stati della “periferia” quanto agli altri. L’opposizione è politica: riguarda l’Italia che a Maastricht si era impegnata a portare il proprio debito pubblico dal 105,5% del Pil al 60% entro “un tempo ragionevole”, ma ora lo ha al 135% e minaccia di portarlo al 170% in due anni, ponendo a rischio la stabilità finanziaria dell’Eurozona. Da un lato, ciò può voler dire che i bond sono tanto più necessari per ridurre il peso dello spread sul debito italiano. Da un altro, che è ora che l’Italia rimetta la propria economia e finanza pubblica in ordine anche tramite il Mes (creato a questo scopo) con relativa condizionalità.
In un quadro di effettiva coesione politica, questi nodi potrebbero essere sciolti con soddisfazione di tutti. Altrimenti si continuerà a barcollare, sperando di non tracollare.