Sembra il titolo di uno dei tanti dossier circolati in Europa negli ultimi trent’anni: “Rapporto sulla competitività europea”. Ma stavolta non sarà un pdf come gli altri. Il malato – l’Unione Europea – è grave e Ursula von der Leyen ha richiamato in servizio Mario Draghi, ex presidente della Bce, l’uomo del “whatever it takes”.
È un ritorno studiato: l’ex presidente del Consiglio scrive un articolo sull’Economist (Mario Draghi on the path to fiscal union in the euro zone), e von der Leyen lo sente subito al telefono. Pochi giorni dopo, nel suo ultimo discorso sullo stato dell’Unione, la presidente uscente ufficializza il ritorno di “superMario”.
L’articolo di Draghi è destinato a diventare il programma politico del secondo mandato di von der Leyen (il Ppe di Manfred Weber sta già lavorando con questo obiettivo). E a leggere bene, c’è di che preoccuparsi. “L’aspetto più problematico della proposta è che Draghi non si pone neppure la domanda di cosa resterebbe della democrazia in Europa. Temo veramente poco, se intendiamo la democrazia come la definisce la Costituzione italiana” spiega al Sussidiario Agustín Menendez, docente di diritto pubblico comparato e filosofia politica nell’Università Complutense di Madrid.
L’articolo di Draghi sull’Economist è destinato a diventare il programma politico del secondo mandato di von der Leyen. Innanzitutto, perché un “Rapporto sulla competitività europea”? Che cosa sta succedendo?
Ventitré anni fa, i leaders europei hanno fissato come obiettivo dell’Unione quello di diventare “l’economia basata sulla conoscenza più competitiva al mondo entro il 2010” (sic). Siamo nel 2023 e sappiamo che questo obiettivo non soltanto non è stato raggiunto, ma per la maggioranza degli europei la realtà è un forte calo del benessere. La decrescita non è una strana filosofia politica ed economica, ma l’esperienza quotidiana di tanti di noi. Invece di aprire un dibattito in profondità sulle cause di questa situazione – che certamente dovrebbe comportare il ripensamento dell’idea stessa di crescita, come aveva anticipato già Keynes negli anni 30 –, von der Leyen ha chiesto a Draghi un “rapport”. Nel 2009, Barroso aveva chiesto a Monti un altro “rapport” sul mercato unico. Qualcuno se lo ricorda?
Draghi comincia così: “Può una unione monetaria sopravvivere senza una unione fiscale?”. Implicitamente la risposta è no, ed è proprio per questo che l’articolo è stato scritto. L’Ue è in grave crisi. Siamo di fronte ad un nuovo Whatever it takes?
In sé stessa, l’affermazione di Draghi è banale. Vorrei però ricordare due cose. La prima è che sarei molto grato a chi trovasse dichiarazioni di Draghi in questo senso nel 1992 o nel 1996, quando ancora era possibile evitare gli errori di architettura dell’euro. Io non le ricordo. Invece altri parlarono forte e chiaro, ricordando i rischi intrinseci a una moneta senza Stato.
E la seconda cosa?
Draghi nel suo articolo non soltanto sostiene la necessità di una unione fiscale, ma ne propone un modello ben specifico. Basta leggere con attenzione.
Ovvero?
Draghi propone un’Unione nella quale le politiche fiscali nazionali, e nondimeno le spese per educazione e sanità, sarebbero soggette a regoli fiscali ancora più rigide – una sorta di austerity 3.0 –, mentre il nuovo potere tributario dell’Unione sarebbe a sostegno di una spesa mediante la quale si socializzano i rischi, per privatizzare – dopo – i profitti. Un “derisking State” a scala europea, capace di finanziare – occasionalmente, en passant – anche le guerre, se necessario.
Verrebbe da dire che 12 anni dopo il Whatever it takes, la “competitività” europea è stata seppellita dagli eventi degli ultimi due anni. Con in più l’economia tedesca oggi in caduta libera. Ma di chi sono le responsabilità?
I fenomeni complessi hanno cause complesse, e quindi responsabilità condivise. Ma come ha spiegato tante volte Giuseppe Guarino con numeri alla mano, la “performance” europea dopo il 1999 è molto deludente. Specialmente quella dell’Italia. Per milioni di tedeschi non sono gli anni della pacchia, ma dei mini-jobs. In spagnolo si dice “de éxito en éxito hasta el fracaso final” (“di successo in successo fino alla sconfitta finale”).
Ma è vero, come scrive Draghi, che “sta cambiando la natura dell’integrazione fiscale necessaria”?
Quello che credo Draghi intenda dire è che la sua proposta di fiscal union esclude “transfers” fra Stati membri. In termini tecnici, niente spese di stabilizzazione macroeconomica tramite sussidi. L’obiettivo, insisto, è aumentare il potere di spesa per favorire gli investimenti privati. Altro che Keynes.
Secondo l’ex presidente della Bce l’Ue non ha la “strategia federale” per finanziare gli “ingenti investimenti” richiesti dalle sfide sovranazionali: “difesa”, “transizione ecologica”, digitalizzazione”. Dunque prevede che questi obiettivi sono e saranno vigenti ora come in futuro. Chi lo ha stabilito?
Il problema non è tanto chi, ma come. Le priorità strategiche le decide il Consiglio europeo, ovvero il collegio di capi di Stato e di governo, e sono state discusse per esteso al Parlamento europeo. Certamente non cadono dal cielo. Però la legittimità democratica di quelle decisioni è molto limitata. La loro proclamazione in termini generali è tutt’altra cosa dal definire quali politiche concrete devono essere implementate.
Può essere più esplicito?
Una cosa è la difesa, un’altra fare la guerra in Ucraina o spedire soldati in Niger. Un conto è la transizione ecologica, un altro costruire factories di batterie per macchine elettriche, senza neppure discutere cosa facciamo con queste batterie quando sono esaurite. Un residuo ben poco ecologico, no?
Soprattutto la difesa è necessaria, come scrive Draghi, per fare fronte ad uno shock, come quello della guerra in Ucraina, del tutto sproporzionato rispetto alle capacità dei singoli Stati.
È un argomento che presuppone che la risposta europea al conflitto debba essere quella, in qualche modo, di fare la guerra. Non sorprende che, vista l’impossibilità politica di spedire soldati, si proponga di combattere “fino all’ultimo ucraino”. Si ignora la storia europea e si rischia di ripeterla. Questa volta con armi nucleari di mezzo.
Veniamo alle soluzioni. Draghi parla di “federalizzazione”: la necessità di “ridefinire la cornice fiscale dell’Ue e il processo decisionale” deve imboccare la via di regole ad un tempo più rigorose e più flessibili. Questo avviene “solo trasferendo più poteri di spesa al centro”. Come commenta?
Il principio federale si orienta a riconciliare unità e diversità. Invece quello che Draghi propone implica una forte spinta centralizzatrice. Basta leggere: le regole fiscali devono diventare ancora più automatiche. Questo vuole dire aumentare il potere della Commissione nel monitorare le politiche fiscali nazionali. A questo si aggiunge, come già detto, l’assegnazione di nuovi poteri tributari e di spesa a Bruxelles, senza fare, almeno nell’articolo, alcun riferimento a come assoggettare questi poteri a un controllo democratico effettivo.
Che spazio resta agli Stati membri?
L’aspetto più problematico della proposta è che Draghi non si pone neppure la domanda di cosa resterebbe della democrazia in Europa. Temo veramente poco, se intendiamo la democrazia come la definisce la Costituzione italiana.
Eppure si parla perfino di modificare i trattati Ue. Non è finalmente una concessione a chi dice che gli attuali trattati non funzionano?
La concessione è soltanto apparente. Che tutti siano d’accordo nel modificare i trattati, non vuol dire che siano anche d’accordo su cosa modificare e come. Infatti Draghi dice espressamente che lo status quo è impossibile, ma lo è anche la riforma dei trattati: “questa prospettiva sembra irrealistica”, leggo due righe dopo.
Nell’articolo si dice che nelle scelte da compiere l’Ue dovrebbe ispirarsi a ciò che Biden sta facendo negli Usa, “allineando la spesa federale, i cambiamenti normativi e gli incentivi fiscali”. Le sue osservazioni?
Draghi sembra in effetti dichiararsi implicitamente un ammiratore della cosiddetta Bidenomics. Niente di cui stupirsi, se con essa si intende una ingente spesa pubblica con la quale socializzare i rischi per privatizzare, dopo, i profitti. Queste idee sono in linea non soltanto con l’azione di Draghi come uomo delle istituzioni, pubbliche e private, ma anche con i suoi scritti: si veda in particolare il suo intervento nel volume collettivo Il dibattito sull’ordine giuridico del mercato, del 1999. Più che la presa di posizione di Draghi, mi stupirebbe che qualcuno caratterizzasse la Bidenomics come un pensiero di sinistra.
Verso la fine c’è un’affermazione politica importante: per la propria sicurezza – scrive Draghi – l’Ue non può più fare affidamento sugli Stati Uniti. Questo che cosa significa per l’Ue, e soprattutto per il programma che Draghi propone?
Draghi ha ragione quando descrive le tre scommesse geostrategiche dell’Europa di Maastricht: difesa “esternalizzata” agli Usa, gas a buon mercato importato dalla Russia e beni di consumo a prezzi stracciati comprati dalla Cina. Si sono rivelati altrettanti errori strategici, come ha spiegato Giulio Sapelli su queste pagine. Ma un conto sarebbe chiedere, alla De Gaulle, lo sviluppo di una capacità di difesa autonoma europea, un’altra cosa aumentare il nostro contributo alla Nato. Finché la difesa europea è in mano alla Nato, parlare di autonomia europea è una chimera.
Forse è opportuno leggere il pezzo dell’Economist con accanto il discorso di Draghi al Mit del giugno 2023. In quell’occasione aveva detto che “la Russia va sconfitta o sarà la fine dell’Europa”. Per questo “la Ue e gli Usa devono aiutare l’Ucraina a fermare Putin. Kiev entri nella Nato”.
Siamo in una situazione molto complessa e delicata. Servirebbero non parole in libertà, ma le migliori qualità della diplomazia europea.
Intanto, la Bce ha nuovamente alzato i tassi.
Nel lontano 1993, la Corte Costituzionale tedesca aveva affermato che la superiorità delle banche centrali indipendenti era stata dimostrata anche “scientificamente”, cioè nella letteratura scientifica. La Bce odierna sembra impegnatissima nel dimostrare la naïveté dei giudizi costituzionali tedeschi di allora.
(Federico Ferraù)
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