“Chi devo chiamare se voglio parlare con l’Europa?”, avrebbe ironizzato Henry Kissinger, mitico segretario di Stato americano con i presidenti Nixon e Ford, per far capire quanto poco stimasse questo imprecisato “Sarchiapone” politico che era già allora l’Unione Europea. Ma in quegli anni – tra il ’69 e il ’77 – per lo meno l’Europa unita era giovane e promettente. Oggi ha un collante – c’è chi dice una camicia di forza – saldo e costrittivo, la moneta unica; ma non ha più sogni, dopo aver archiviato quella della costituzione unitaria; non ha voce unitaria nel mondo; non ha esercito; non ha fiscalità e giurisdizioni davvero comuni, anche se quelle nazionali sono variamente vincolate a procedure condivise, ma assimilate sicuramente solo dalla burocrazia mostruosa che le contagia tutte.
E mentre il mondo è in fiamme e l’Europa – sull’Ucraina come sul Medio Oriente – non batte un colpo salvo asseverare in maniera diversamente sonora ma vacua la linea della Casa Bianca, cosa fanno i Governi dell’Eurozona? Si ritrovano a otto settimane dall’anno nuovo, da quel 1° gennaio 2024 dal quale dovrà tornare in vigore il “Patto di stabilità e crescita”, senza aver ancora definito le regole-chiave per farlo funzionare e dunque avvicinandosi a lunghe falcate all’assurda ipotesi di riattivarlo com’era prima del Covid…
Attenzione: il contesto non è migliorato per il colpo di reni organizzativo e finanziario avuto dall’Unione per reagire alla pandemia, tutt’altro. La batosta della crisi energetica, innescata dalla ripresa industriale e poi fatta esplodere dalle sanzioni alla Russia, aggravata dall’ondata inflattiva e dal caro-tassi, pavlovianamente voluto dalla Banca centrale pseudo europea ma in realtà criptotedesca, hanno messo l’economia dei 27 con le spalle al muro.
Le recenti stime flash del Pil nel terzo trimestre del 2023 per l’Unione sono penose. Nell’Eurozona il Pil è visto in calo dello 0,1% – in calo! – e nell’Unione a 27 in crescita di appena lo 0,1%. Mentre gli Stati Uniti crescono di quasi il 5% e hanno un’inflazione in linea con la nostra.
Senza troppe ipocrisie questo bilancio si deve definire in tre sillabe: di-sa-stro.
Gli scienziati cui va il merito di ispirare questa non-politica-non-economica sono sempre loro, gli ideologi paleobancari del sistema tedesco che, oppresso a sua volta dalla recessione, a valle di errori madornali commessi nella politica energetica (uscita dal nucleare e dipendenza dalla Russia) e industriale (dipendenza tecnologica e commerciale dalla Cina), sa solo balbettare di rigore e austerità anti-inflazione, al riparo com’è da quel sano antidoto democratico che si chiama il “vaffa” della piazza, afflittiva ma liberatoria prassi dei Paesi latini. Ma si sa che in termini di democrazia la Germania ha precedenti inquietanti, ben peggiori dei nostri, e quindi accontentiamoci che almeno adesso obbediscano ai banchieri e non ai generali.
Dunque, cosa fa la Bce, sede unica del potere reale che vive in Europa, quello dei banchieri centrali filotedeschi? Ha rialzato i tassi in modo asfissiante, ottenendo l’obiettivo di fermare l’inflazione (non è detto che adesso scenda: dipende dalla guerra e dalla connessa speculazione), ma non quello di lasciar crescere l’economia, che infatti si è fermata. E ha dettato alla Commissione europea, che finge un’indipendenza inesistente, le condizioni per la riattivazione del Patto di stabilità.
La Commissione infatti ha proposto, nell’aprile scorso, una revisione delle regole, che… non le cambia, ovvero mantiene inalterati gli obiettivi del 3% nel rapporto tra deficit di bilancio e Pil e del 60% tra debito pubblico totale e Pil; ma ha proposto dei ritocchini insignificanti alle condizioni pretese per il conseguimento di questi parametri. Tartufescamente, infatti, ha detto che ogni Stato dell’Eurozona dovrà presentare un piano a medio termine finalizzato a ridurre deficit e debito entro le soglie volute con un “plausibile percorso discendente”, che dovrà essere negoziato dal singolo Stato con la Commissione europea e approvato dal Consiglio dell’Ue.
Una confisca di sovranità ancora peggiore di prima. Prima i risultati erano inarrivabili, ma almeno se qualcuno – un campione del mondo! – li avesse conseguiti nessuno avrebbe potuto entrare nel merito del “come”. Adesso, stante l’impossibilità (per noi, per la Francia, la Grecia, la Spagna e il Portogallo, almeno) di conseguire quei livelli, si dovrà andare a Bruxelles col cappello in mano e pietire un “sì”.
Poi la Commissione avrebbe aperto all’idea di prevedere verifiche quadriennali sugli “aggiustamenti fiscali” necessari agli Stati per raggiungere le famose soglie. Ma il punto, si sa, è un altro: se l’Unione fissa dei parametri per l’economia pubblica degli Stati membri, più che parlare davvero ai Governi degli Stati membri parla ai mercati e gli dice: non comprate i titoli pubblici dei Paesi che non “fanno i bravi”, e cioè non riescono ad avvicinare l’affidabilità del proprio debito a quella del debito tedesco. Il famoso spread.
Quindi, è chiaro? La solidità dell’economia tedesca – per tanti versi l’ultima della classe oggi in termini di efficienza, pur essendo di gran lunga la più forte – viene assunta come unico criterio meritocratico per classificare le altre economie europee. E classificandole per affidabilità si stabilisce quali meritano e quali no gli investimenti finanziari del mondo. Chi non li merita, è fregato: nessuno compra più il suo debito, la finanza collassa, ci vuole il salvataggio e scatta la cosiddetta Troika, la convergenza delle cervelloticità di Fmi, Bce, Commissione europea. Vedi alla voce “Grecia” e a quel niente che è rimasto in piedi, dopo la cura, dell’economia nazionale, tuttora fiaccata da un debito che raggiunge il 180% del Pil.
Con questo quadro, l’Unione Europea non può andare da nessuna parte. Inutile arrabbiarsi, polemizzare, strologare su come votare per cambiare le cose. Non può servire, i poteri veri sull’Europa sono extraparlamentari. Provvederà la storia a smontare pezzo per pezzo questa costruzione politica senza anima. Facciamoci caso: sta già succedendo. Purtroppo, ovviamente.
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