Tutto come da previsione: la Banca centrale europea ha alzato i tassi di 75 punti, per giunta anticipando che la guerra all’inflazione non si fermerà lì. Si chiude così l’era del denaro a sconto: d’ora in poi i depositi delle banche presso i forzieri di Francoforte torneranno a rendere qualcosa in termini di interesse.
Ma più che la soddisfazione del mondo del credito per il ritorno degli interessi, sorprende l’unanimità dei consensi attorno alle decisioni prese dal consiglio direttivo, nonostante il rischio che questo e i prossimi aumenti dei tassi (già annunciati) possano accelerare la discesa verso la recessione.
Eppure, non è un mistero che le “colombe”, ovvero il membro italiano Fabio Panetta e il capoeconomista Philip Lane, avrebbero preferito un approccio più morbido. La stessa Christine Lagarde, che ha lasciato alla tedesca Isabel Schnabel l’onere di illustrare ai banchieri riuniti a Jackson Hole le scelte della Bce, si è calata con qualche imbarazzo nei panni del “falco”, comunque indossati in ritardo, a detta di molti operatori. Ma in un momento delicato sul piano politico, di fronte al ricatto sul gas e la minaccia del “generale inverno” i banchieri hanno scelto la strada dell’intesa.
È probabile peraltro che dietro il consenso unanime ci sia un accordo sugli interventi a protezione dei Btp, utilizzando le riserve accumulate dalla Bce così come il rinvio del Quantitative tightening, cioè la riduzione del bilancio della Bce, che sfiora i 4mila miliardi.
Ma, al di là degli aspetti tecnici, in parte lasciato volutamente nell’ombra, il dato politico è la compattezza messa in campo alla vigilia della sfida campale alla Russia sul fronte dell’energia. Una scelta tutt’altro che scontata. E non indolore perché, a differenza che in passato, Lagarde non ha nascosto i potenziali pericoli di una situazione ad altissimo rischio. Nello scenario migliore la Ue si avvia infatti ad una crescita dello 0,9% nel 2023. Ma non è da escludere che l’anno prossimo l’economia scivoli in recessione con un calo attorno allo 0,9% nel caso che non si riesca ad attivare una politica comune che riduca l’impatto dello stop delle forniture di gas dalla Russia.
Anche in caso di recessione, però, l’obiettivo primario resta quello di riportare l’inflazione dalle vette attuali (attorno al 9%) a valori attorno al 2%. Non sarà una battaglia facile o breve. I primi risultati si vedranno, nel caso migliore, attorno alla metà dell’anno prossimo dopo una nuova raffica di aumenti del costo del denaro (da effettuare da 2 a 4 volte nel corso dei prossimi meeting) nella consapevolezza che questa politica attirerà proteste e critiche, perché “i prezzi molto elevati dell’energia stanno riducendo il potere d’acquisto dei redditi delle persone e, sebbene le strozzature dell’offerta si stiano attenuando, continuano a limitare l’attività economica”.
Ma qui la palla passa dalle mani dei banchieri a quelle della politica: o la Ue riuscirà entro ottobre a concordare meccanismi per contenere il caro energia a carico dei consumatori oppure si scateneranno le pressioni per allentare la stretta monetaria, anche a costo di scaricare nuove tensioni sull’euro.
Ce la farà l’Europa a superare la prova? Le premesse, purtroppo, non sono positive. Data la distanza tra le posizioni, la proposta di introdurre un tetto al prezzo del gas russo non è stata discussa ieri dai ministri europei dell’Energia: starà ai leader Ue, che si riuniranno il 6 e 7 ottobre a Praga per un vertice informale e poi ancora il 20 e 21 ottobre a Bruxelles, prendere una decisione definitiva.
Il tempo scorre, l’economia rallenta. Nonostante il sacrificio imposto da tassi più elevati (basti pensare ai mutui), l’euro sembra destinato a soffrire ancora, compromettendo in parte la battaglia dell’inflazione.
Insomma, la terapia della Bce rischia di avere vita breve. Complici le resistenze di alcuni Paesi, Olanda e Polonia (per motivi diversi) in particolare, ma anche le diffidenze palesate dall’asse franco-tedesco nei confronti dell’Europa del Sud che, una volta tanto (Spagna e Portogallo più dell’Italia), si presentano all’appuntamento in condizioni migliori.
Sullo sfondo c’è un continente che fatica più di tutti ad adeguarsi al new normal del mondo deglobalizzato. L’Europa, che non ha materie prime e ha un modello basato sulle esportazioni, è infatti il vaso di coccio del nuovo mondo bipolare. Di qui la prospettiva di una risposta basata sull’intervento pubblico, con la nazionalizzazione dei settori in crisi e con un rilancio massiccio degli investimenti pubblici e pubblico-privati. Prima lo si capirà, meglio sarà.
E questo vale anche per la difesa dei propri, sudati risparmi, non più protetti, semmai insidiati dalle banche centrali. Non è ancora il momento di farsi abbagliare dai rendimenti in crescita. Nelle Borse non mancano i settori destinati ad offrire protezione. Riarmo, semiconduttori e transizione energetica saranno i filoni principali ed è qui che gli investitori dovranno cercare di posizionarsi per sfruttare il nuovo corso anche ai tempi della recessione. Probabile, ma, si spera, relativamente breve.
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