Manca l’accordo in Europa sul sesto pacchetto di sanzioni alla Russia. La Commissione mette a punto le proposte, ma i 27 Stati devono approvarle all’unanimità: se questo non avviene, il provvedimento salta. È quanto accaduto ieri a Bruxelles. “Proponiamo un divieto del petrolio russo, un divieto totale d’importazione di tutto il petrolio russo, via mare e via oleodotto, greggio e raffinato”; “vogliamo che l’Ucraina vinca questa guerra” ha detto ieri mattina Ursula von der Leyen. Niente da fare: Ungheria, Bulgaria e Slovacchia hanno risposto no all’embargo. 



Dunque l’unità europea non c’è. È anche per questo che Draghi, nel suo discorso di martedì all’europarlamento, aveva detto che serve un “federalismo pragmatico”, spingendosi a parlare di “revisione dei Trattati” per adeguare le istituzioni europee dove non sono all’altezza.

“L’azione dell’Occidente suscita nel resto del mondo diffidenza e preoccupazione; quanto all’Europa, patisce da questa situazione danni diretti e non sa come uscirne” dice Antonio Pilati, saggista, esperto di comunicazione, già componente di AgCom e Antitrust. Mattarella e Draghi lo hanno capito, e cercano di creare piccoli spazi di agibilità politica. “La vera novità viene dall’iniziativa del Papa: per questo dovrebbero seguirlo” spiega ancora Pilati al Sussidiario.



Niente stop al gas russo, Europa divisa. I fatti non fanno seguito alle intenzioni: perché? 

Ma perché l’Europa si trova a subire una pressione ideologica fortissima che la spinge in una direzione, quella dell’impegno ad oltranza a supporto dell’Ucraina “fino alla vittoria”, mentre gli interessi materiali la spingono in una direzione diversa. Questa contraddizione finisce per dividere l’Europa e i Paesi europei al loro interno.

E per Bruxelles sono interessi materiali di importanza vitale, almeno quanto il no alla Russia.

Più i Paesi europei danno seguito all’indignazione morale con provvedimenti finalizzati a colpire Mosca, più vedono aumentare i propri problemi di approvvigionamento, energetico in primis, aumentare l’inflazione e aggravarsi le prospettive economiche. E in testa ci sono i due Stati economicamente più forti, Germania e Italia.



Dove porta la contraddizione che ha detto?

Ai tanti distinguo rispetto alla linea che si enuncia pubblicamente, e al tentativo, da parte di chi governa, di ricavarsi uno spazio politico che dia qualche possibilità di manovra davanti a prospettive sempre più fosche.

Cosa significa in concreto?

Proviamo di rileggere il discorso di Draghi al parlamento europeo. Se prendiamo i passaggi dedicati alla crisi economica causata dalla guerra in Ucraina e alle sue conseguenze, la diagnosi è perfetta. Se però l’imperativo è “diminuire le somme che ogni giorno inviamo al presidente Putin”, occorre trarne decisioni politiche. E allora i conti non tornano più. Appare evidente che armi e sanzioni non avvicinano, ma allontanano il cessate il fuoco.

Quindi?

La mia impressione è che Draghi si senta stretto tra le contromisure economiche teoricamente necessarie per danneggiare la Russia e le conseguenze che ne derivano. E che cerchi uno spazio. Anche l’auspicio di Mattarella di una conferenza internazionale sul modello di quella tenuta a Helsinki nel 1975 in materia di sicurezza va in questa direzione. Infatti non mi sembra un’idea molto gradita agli Usa.

Papa Francesco ha espresso la volontà di incontrare Putin. Come valuta questa novità?

È un fatto fondamentale, perché cerca di invertire una situazione che appare destinata a evolversi in peggio. Il Papa è un’autorità morale che non sì può far finta di ignorare, né in Europa, né in America.

Quello del Papa è un approccio più realista?

È un’altra interpretazione della crisi attuale. Non si può avviare un processo di pace senza parlare con Putin. Non solo. Quando il Papa dice che “l’abbaiare della Nato alle porte della Russia” può avere “facilitato” l’ira di Mosca, delinea una lettura alternativa a quella dominante.

In che cosa risulta diversa?

Sta dicendo che la storia non è cominciata il 24 febbraio, come ci racconta la Nato, e che i rapporti con la Russia sono un problema politico di lunga data in cui compaiono responsabilità che appartengono a entrambe le parti. In quanto tale richiede un approccio politico: nell’impostarlo sono stati fatti degli errori.

Lei dunque vede nelle parole di Draghi un tentativo di smarcarsi. Può riuscire?

Mi sembra che Draghi stia saggiando il terreno per capire se ci sono spazi. Da quello che ha detto nel suo discorso, è chiaro che ha capito benissimo che se le cose rimangono come sono, la nostra seconda metà dell’anno sarà una tragedia.

Cito: “proteggere l’Ucraina vuol dire (…) proteggere il progetto di sicurezza e democrazia che abbiamo costruito insieme negli ultimi 70 anni. Aiutare l’Ucraina vuol dire soprattutto lavorare per la pace”. Fornendo armi?

Ha però aggiunto che “la nostra priorità è raggiungere quanto prima un cessate il fuoco” e che “l’Europa può e deve avere un ruolo centrale nel favorire il dialogo”. Questa non è esattamente la linea americana. In questo senso il Papa è un punto insperato di appoggio che certamente sarà valorizzato. 

A proposito degli Usa, in un’intervista al Corriere che ha fatto scalpore, l’economista americano Jeffrey Sachs ha rivolto pesanti accuse a Washington, dicendo tra l’altro che “gli Stati Uniti e l’Ucraina non hanno mai dichiarato i loro termini per trattare”. Qual è il loro obiettivo? 

L’obiettivo degli Usa è certamente quello di danneggiare il più possibile la Russia, questo è evidente, ma anche di creare problemi agli europei e soprattutto alla Germania. Ricordiamoci la battuta di Obama sui “free riders” che si sono approfittati dell’ombrello di sicurezza americano per fare i propri affari con la Cina sul piano commerciale e con la Russia su quello energetico. A me vengono in mente soprattutto i tedeschi.

Non anche chi ha siglato in modo sbarazzino un Memorandum of understanding con la Cina?

Il peso politico e le conseguenze pratiche sono state molto minori. 

Secondo un sondaggio condotto per i canali televisivi tedeschi Rtl e N-tv, un mese fa i tedeschi favorevoli all’invio di armi pesanti all’Ucraina erano il 55%, oggi sono il 46%. Dell’Italia abbiamo scritto di recente. In più, ci sono malumori crescenti perché Draghi non si presenta in parlamento. Come commenta?

Siamo davanti a uno scenario caratterizzato da due fattori molto importanti. Uno è interno, l’altro è globale. I cittadini europei vedono tutti i rischi e i problemi che la guerra comporta per il futuro dell’economia e del loro tenore di vita. Andiamo incontro a una potenziale divaricazione tra il sentimento dell’opinione pubblica, le scelte dei governi e la grancassa ideologica che viene suonata. Questa separazione, andando verso periodi elettorali, rischia di essere molto rilevante e dagli effetti imprevedibili. Credo che Mattarella e Draghi lo abbiano capito.

E sul piano internazionale?

La guerra in Ucraina sta mettendo l’Occidente nel formato Ramstein, cioè i Paesi Nato più i quattro del Far East (Sud Corea, Giappone, Australia, Nuova Zelanda, ndr) in una posizione di difficoltà su scala globale: perplessità e diffidenza stanno crescendo nel resto del mondo.

Per quali ragioni?

A mio avviso vedono tre cose nell’Occidente. La prima: una grande potenza tecnologica e militare, irraggiungibile nel breve da chiunque altro, e potenzialmente pericolosa. La seconda: una fortissima capacità di elaborazione e produzione di consenso ideologico. La terza: un indirizzo strategico che, per usare un eufemismo gentile, appare erratico e volatile.

In che senso?

Cina, India, America Latina, importanti Paesi africani vedono l’Occidente almeno dagli anni 90 intraprendere contro Paesi sovrani – Serbia, Afghanistan, Iraq, Libia, Siria – aggressive campagne belliche che hanno portato risultati incerti e confusionari. Se l’Occidente ha violato tante volte il diritto internazionale, la drammatica indignazione attuale appare ad occhi altrui segnata da una certa dose di ipocrisia strumentale. 

Quali sono le conseguenze di tutto questo?

L’impressione che prevale nel resto del mondo sembra essere che l’Occidente voglia imporre un ordine mondiale disegnato unicamente sui propri interessi.

C’è aria di fine anticipata della legislatura? Secondo La Stampa, Draghi avrebbe incaricato Franco di preparare la manovra entro l’estate.

Le forze politiche sono a disagio perché i governi prendono le decisioni sopra le loro teste, non solo in Italia. Una situazione in cui la vita degli elettori potrebbe cambiare per sempre, senza che i partiti abbiano margine di manovra, è la più destabilizzante per loro. È difficile fare previsioni, nel senso che tutto può davvero succedere.

(Federico Ferraù)

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