È la prima vera sconfitta, per quanto provvisoria, subita da Draghi in politica estera. Quei 20 minuti inconcludenti su 5 ore complessive di colloquio sono il segno che in Europa è il Consiglio europeo, che riunisce i capi di Stato e di governo, ad affrontare le questioni dirimenti, non la Commissione; e che di migranti “l’Europa” degli Stati preferisce non parlare. Paolo Quercia, docente di studi strategici nell’Università di Perugia, pronostica che le due vie dichiaratamente scelte da Draghi, rimpatrio dei migranti economici e redistribuzione tra i principali Stati su base volontaria, siano destinate ad arenarsi.
Può non saperlo, l’ex presidente della Bce? Secondo Quercia, quella di Draghi è “una strategia per mettere l’Europa di fronte alle sue responsabilità e alla fine creare un credito dell’Italia verso l’Europa”. Di certo c’è che “o controlliamo le frontiere, o aiutiamo i Paesi vicini a controllare le loro, o teniamo in Italia i migranti che entrano illegalmente”. Un’altra strada, a dire il vero, Draghi l’ha intrapresa. Ed è senza dubbio più lungimirante.
Nell’ultimo Consiglio europeo sono stati dedicati al dossier migranti 20 minuti su 5 ore. Qualcuno osserva che Michel teme una frattura Nord-Sud tra i paesi europei.
Più che una frattura tra Nord e Sud, il risultato è un isolamento dell’Italia verso il resto d’Europa su questo tema. Il dossier sarà forse affrontato a fine giugno, quando ormai sarà tardi per attuare contromisure per la stagione estiva. E temo non ci saranno cambiamenti significativi rispetto al passato.
Cosa rischiamo?
Rischiamo di avere un’altra estate di sbarchi molto superiori alla media ed un Europa nuovamente indifferente. Dopo due anni in calo, il 2018 ed il 2019, gli sbarchi hanno ripreso a salire nel 2020 e quest’anno potrebbero essere ancora più alti dei 34mila dello scorso anno.
Cambiamo la prospettiva. Quali conseguenze potrebbe subire l’Ue se continua a non affrontare il problema?
Con alti e bassi la crisi migratoria sta procedendo per ondate intermittenti oramai da quasi dieci anni senza segni di esaurimento. I meccanismi economici che essa ha attivato sono molto solidi ed autoalimentano una domanda pressoché infinita di viaggi illegali verso l’Europa. Tuttavia la capacità europea di accoglienza, e sopratutto il consenso politico a tollerare questa situazione, sembra sia giunta al termine. Anche perché la questione dell’integrazione e dell’accoglienza non sta andando benissimo e non sono sempre rose e fiori. Senza affrontare la crisi come un fattore strutturale di politica europea verso l’Africa, le conseguenze politiche in Europa saranno molto alte.
Che cosa glielo fa pensare, nello specifico?
A Bruxelles si discute ormai con sempre maggiore frequenza non di come redistribuire i migranti che sbarcano in Italia, ma di come deportare i migranti arrivati in Europa illegalmente e come aumentare le pressioni verso i Paesi di transito e quelli di origine che non contrastano i flussi o che non collaborano sui rimpatri.
Per quanto è dato sapere, Draghi propone un accordo da concludere entro giugno basato su due punti: rimpatrio dei migranti economici e redistribuzione tra i principali Stati su base volontaria. Funzionerà?
Temo di no, perché il numero dei migranti economici, rispetto a quelli che hanno bisogno di protezione in maniera certa ed assoluta, è molto più grande, almeno tre se non quattro volte più alto. Se si tolgono i Paesi di conflitto, per molti Paesi di origine il tasso di accoglienza delle domande di rifugiato scende anche sotto il 10%. Rimandare indietro queste masse di persone una volta che si è consentito loro di arrivare in Europa, spesso con sacrifici inenarrabili, è una strategia a mio avviso non percorribile. O meglio attuabile solo per poche migliaia di casi l’anno.
Lei crede possibile, come si fa trapelare da ambienti politici europei, che dopo le elezioni tedesche si potrà discutere di ricollocamenti in altri Stati partner non volontari ma obbligatori?
Ho molti dubbi. Ma anche se fosse, per noi-Italia vedo pochi benefici, se non nel brevissimo termine per alleggerire la pressione sui nostri sistemi di accoglienza. Ma più i ricollocamenti, che comunque riguardano solo una minoranza di coloro che sbarcano, saranno rapidi, automatici e massicci più rischiano di essere un fattore di aumento di nuovi sbarchi.
Perché non si riesce ad uscire dallo schema Malta 2019?
È un po paradossale che si continui a ruotare attorno a questo schema che non ha funzionato. Io penso che sia più che altro un meccanismo comodo politicamente.
Come funziona?
Il nostro governo dice che il problema lo deve risolvere l’Europa e cerca di fare la voce grossa; l’Europa dice un sì di principio, ma poi i Paesi europei interessati si limitano a scegliersi un numero insignificante di persone tra quelle sbarcate, solo tra quelli che possono ottenere lo status di rifugiato e selezionandoli anche accuratamente. Di fatto la gran parte del problema, qualitativo e quantitativo, resta a noi.
Lei cosa suggerisce?
Penso che bisognerebbe prendere atto del chiaro messaggio politico che l’Europa ci sta dando agendo in questo modo. Non saranno loro ad occuparsi delle nostre frontiere e dei nostri problemi migratori. Finché vogliamo stare dentro l’Europa l’onere resta a noi. O controlliamo le frontiere, o aiutiamo i Paesi vicini a controllare le loro, o teniamo in Italia i migranti che entrano illegalmente. Altre via sembrano non esserci.
Che cosa manca alla proposta italiana?
Io penso che Draghi sia ben consapevole del fatto che lavorare sui ricollocamenti verso altri Paesi europei non è una via in grado di influire sull’entità del problema. Credo che sia una strategia per mettere l’Europa di fronte alle sue responsabilità e alla fine creare un credito dell’Italia verso l’Europa per lo sforzo di attenuazione del fenomeno che stiamo facendo come Stato cuscinetto.
Macron ha un approccio diverso. La Francia, più che sui ricollocamenti, preferisce concentrarsi sulla cooperazione con i Paesi d’origine e di transito e sul rafforzamento dei confini esterni dell’Ue. Che ne pensa?
Penso che sia la via corretta, una politica che l’Italia dovrebbe sostenere, anzi farsene promotrice in Europa.
Cosa ci dice quanto accaduto a Ceuta e che lezione dobbiamo trattenere?
Che un governo di sinistra europeo, con il sostegno dell’Europa, ha attuato politiche massicce di respingimento di migranti entrati illegalmente sul suo territorio. Quella di qualche giorno fa era una situazione estrema per il numero di persone coinvolte. Ma il respingimento alla frontiera è una pratica che la Spagna attua da numerosi anni non solo alle barriere di Ceuta e Melilla ma anche in mare. E con il beneplacito di Bruxelles.
Abbiamo davanti agli occhi le immagini dei bambini morti sulle spiagge libiche. Come si fa ad impedire che accada?
Uscendo dal rattrappimento europeo. Finanziando in maniera massiccia il lavoro di Unhcr e Oim nei campi di rifugiati il Libia. Spingendo le tante Ong internazionali ad operare in Libia. Ponendo un argine – anche ricorrendo a sanzioni finanziarie individuali – alla vergognosa tratta di esseri umani che si svolge giornalmente alla luce del sole a cavallo dei confini meridionali della Libia; realizzando attività di search and rescue dei migranti nel Sahel e nel deserto libico, prima che giungano alle coste del Mediterraneo. Ma sopratutto mettendo fine alla latente guerra civile in Libia e ricostruendo le istituzioni locali di sicurezza. A partire dalla guardia costiera libica.
“È inaccettabile” ha detto Luca Casarini (Mediterranea Saving Humans) “che il soccorso in mare sia stato sospeso in favore di una attività di ‘polizia di frontiera’ – perché questo è quello che fanno le milizie libiche travestite da ‘guardia costiera’ – che ha catturato e deportato di nuovo in quei campi migliaia di persone dall’inizio dell’anno”. Cosa risponde?
La guardia costiera libica, che è sbagliato assimilare alle milizie, svolge proprio l’attività di salvataggio in mare. Ed è perfettamente normale che riporti nella terrà più vicina, ossia sulle coste libiche, i migranti salvati nelle acque territoriali libiche. Solo in un sistema dove immaginiamo il collasso totale dello Stato libico possiamo immaginare che non sia così. Ed in un tale sistema la vita dei migranti varrebbe ancora meno. Dovrebbe essere evidente che è la mancanza delle istituzioni dello Stato libico a rappresentare il principale problema per i diritti dei migranti in balia di cartelli privati e di milizie criminali.
Cosa la lascia più perplesso dell’attività delle Ong?
Continuo a non capire perché siano più dure contro la guardia costiera libica e non contro i trafficanti veri e propri o i campi di concentramento dei migranti dove avvengono gli abusi. È proprio sulle condizioni di vita nei campi e sulla loro messa in sicurezza che dovrebbe concentrarsi l’attenzione delle Ong. Sono campi che vanno svuotati il più rapidamente possibile anche attraverso i progetti di ritorno volontario nei Paesi di origine.
Risulta esserci un dialogo tra Draghi e Macron su punti per noi molto sensibili, oltre che da sempre al centro delle attenzioni francesi: Libia e Sahel. Cosa deve fare il nostro governo?
Il presidente Draghi sta portando avanti, sin dal suo insediamento, un percorso di riavvicinamento con Parigi. Nell’incontro che c’è stato qualche giorno fa a Bruxelles a margine del Consiglio europeo, Draghi e Macron hanno ulteriormente approfondito le possibilità di cooperazione tra i due Paesi, che sono inevitabili. La Libia è strettamente connessa al Sahel, ma anche alla Tunisia e all’Algeria. Nel 2020 sono arrivati in Italia grosso modo lo stesso numero di migranti dalla Libia e dalla Tunisia, circa 15mila da ciascuno dei due Paesi. Il rischio è che azioni non coordinate facciano ridurre i flussi da un Paese ma li aumentino dall’altro. A questo si aggiunge la cooperazione in campo industriale su vari fronti e quella tra Eni e Total. L’Italia deve aiutare la Libia a ricostruire la sua profondità strategica nel Sahel e per questo abbiamo bisogno della Francia.
(Federico Ferraù)
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