Martedì mattina il Financial Times prevedeva già una “confortevole maggioranza” per Ursula von der Leyen al decisivo voto di fiducia all’Europarlamento. Il pronostico è stato azzeccato: alla nuova commissione Ue sono andati 461 sì, 30 in più che a quella uscente nel 2014. Ma il plenum di 751, ieri mattina a Strasburgo, era ancora gonfiato proprio dai 73 “Mep” britannici. E di questi un numero rilevante ha certamente seguito le indicazioni positive dei tre gruppi della nuova “grande coalizione” Ue, formata da Ppe, S&D e Renew Europe. E’ tuttavia probabile che i sì trasversali dal Regno Unito siano stati anche più numerosi.
Per quanto apparentemente paradossale, Bruxelles e Londra sono divenuti nelle ultime settimane stretti alleati sulla via della Brexit. E’ stata la commissione Juncker in super-prorogatio a regalare al gabinetto conservatore – in modi tutt’altro che scontati e trasparenti – una nuova chance di uscita concordata: ciò che, soprattutto, ha consentito al premier Boris Johnson di chiamare elezioni anticipate con possibilità di vittoria impensabili fino a qualche settimana fa. In cambio von der Leyen ha potuto finalmente esordire con una “confortevole maggioranza” di cui la City si è affrettata a rivendicare una parte del merito.
Lo scenario di una commissione debole già in partenza presso un Europarlamento sempre più protagonista sembra quindi rientrato: almeno per ora. E se l’astensione costruttiva dei Verdi è dato rilevante, un peso inequivocabile ha avuto il passo ufficializzato dal “direttorio” franco-tedesco proprio alla vigilia del voto di ieri.
Nonostante una fase di crescenti divergenze – ultima quella sul ruolo della Nato – Parigi e Berlino sono riuscite a serrare i ranghi e a chiamare una nuova fase “costituente” per l’Unione. Da febbraio (cioè senza più la Gran Bretagna al tavolo) e per due anni, Commissione e Parlamento dipaneranno un filo rosso prioritario nel disegno di un “terzo patto” dopo quello di Roma nel 1957 e quello di Maastricht nel 1991.
Sono una Francia e una Germania scosse ambedue da crescenti instabilità interne quelle che rivendicano la loro leadership in Europa. Sia Angela Merkel che Emmanuel Macron continuano a essere sotto pressione: la cancelliera (in progressivo declino personale) dal boom della destra xenofoba e dalla crisi dei partner socialdemocratici; l’Eliseo dai gilet jaunes portabandiera di una vasta Francia “dimenticata”. Entrambi i palazzi, negli ultimi giorni, sono finiti anche sotto l’assedio degli agricoltori: apparentemente poco entusiasti della svolta verde che è da ieri il vessillo politico-mediatico della commissione von der Leyen (ben poco “gretini” sembrano fra l’altro manager, operai e sindacati dei potenti giganti dell’auto francesi e tedeschi).
Su questo sfondo non può aver stupito che sia Merkel (senza ancora un successore) sia Macron (ancora non consolidato a metà mandato) abbiano dovuto e voluto reagire: facendo leva su un importante passaggio istituzionale per riassumere l’iniziativa contro le forze che – non solo in Italia – criticano con crescente consenso elettorale le norme e le prassi dell’Unione di Maastricht.
La mossa – almeno nelle premesse – ha puntato a correggere definitivamente il passaggio decisamente infelice maturato in estate, quando il Consiglio Ue ridisegnò gli organigrammi Ue all’indomani del voto di maggio. Allora, soprattutto la Germania incorse in un infortunio multiplo. Il candidato di Merkel per la commissione (il socialista olandese Frans Timmermans) fu bocciato dalla rivolta interna dei leader del Ppe, fra cui molti premier dell’Est Europa. La cancelliera dovette quindi astenersi sulla designazione della tedesca von der Leyen e subì il diktat francese anche su Christine Lagarde alla Bce, solo successivamente “sanato” dalla bocciatura di Sylvie Goulard come commissaria francese (fu, quello di fine giugno, lo stesso weekend dell'”operazione Carola” a Lampedusa: già allora sintomo chiaro che l’establishment di Berlino era in drammatica crisi di lucidità).
Nell’estate scorsa il soccorso al pericolante direttorio carolingio giunse – paradossalmente – dall’Italia. Fu il premier Giuseppe Conte – allora formalmente ancora a capo di un governo fra Lega e M5s – a sorreggere un’Europa divisa e vacillante. Fin da allora è dubbio che l’abbia fatto nell’interesse del Paese. Conte, comunque, si accontentò del ritiro di una procedura d’infrazione contro il debito italiano provocatoriamente decisa dalla commissione Juncker tre giorni dopo la netta avanzata della Lega e il tracollo di M5s al voto europeo.
Dopo aver avallato la designazione del dem italiano David Sassoli a nuovo presidente di Strasburgo, Conte garantì anche a sorpresa i voti favorevoli pentastellati ai primi passaggi euro-parlamentari, rischiosissimi per von der Leyen. Il “ribaltone” italiano iniziò così più che virtualmente a Strasburgo (dove ieri invece è spiccata la frattura interna ai pentastellati: 10 favorevoli alla nuova commissione, 2 contrari e 2 astenuti).
Il seguito è noto: è stato l’ex presidente italiano della Commissione Ue Romano Prodi – di fatto il capo di una sorta di “governo italiano in esilio” – ad annunciare personalmente l’avvento in Italia di un “governo Orsola”, affidato poi allo stesso Conte. Cui inizialmente la nuova Ue sembrò promettere molto, per dare poi però assai meno su flessibilità finanziaria, flussi migratori e ruolo in commissione (umiliante, in particolare, il collocamento del commissario Paolo Gentiloni sotto la sorveglianza del lettone Valdis Dombrovskis)
Il Conte-2 – è stato detto in agosto e si continua a ripetere oggi – è entrato in carica “per la legislatura”. L’esecutivo durerebbe fino all’inizio del 2023 e la maggioranza Pd-M5s-LeU-Iv si presenterebbe tale al voto per il Presidente della Repubblica, a inizio 2022. La precisione e la perentorietà delle scadenze sembra oggi pienamente comprensibile alla luce della decisione franco-tedesca di aprire un biennio di riforma per la Ue. Un cambio di quadro che ha effetti immediati: se non è un commissariamento dell’Unione, ci assomiglia molto.
Non è affatto difficile vedere – in filigrana al decreto di Merkel e Macron – almeno due premesse-obiettivo. Anzitutto, la virtuale “neutralizzazione” della governance europea – ma forse è possibile dire della politica europea tout court – per i ventiquattro mesi che conducono alle elezioni politiche in Germania (fine 2021), alle presidenziali italiane e quindi a quelle francesi. In secondo luogo, Francia e Germania avocano apertamente a sé la co-presidenza di un tavolo di riforme che avrà fra i temi-guida la fine dell’Europa di Paesi uguali fra loro, nella quale finora le decisioni sono state sempre assunte obbligatoriamente all’unanimità. E il futuro promette di arrivare ben prima del 2022.
Un Paese come l’Italia – che pare nutrire dubbi in extremis sul cosiddetto “Mes” (una riforma già pronta della governance economico-finanziaria dell’Unione) – potrebbe trovarsi già nei prossimi giorni di fronte a un bivio. Il Conte-2 porrà il veto sulla formulazione del meccanismo salva-Stati pre-votato in giugno dal Conte-1? Se lo farà Roma si collocherà già “all’opposizione” al tavolo delle riforme europee: di fatto preparandosi a essere puntuale destinataria di un “prendere o lasciare”. Un aut aut che alla fine potrebbe riguardare anche la permanenza stessa nella Ue, o quanto meno nel suo “primo cerchio”.
E’ prevedibile che la “questione europea” tornerà a infiammare il dibattito politico
interno. All’osso, si confronteranno prevedibilmente quanti, da un lato, considerano l’Italia colpevolmente “isolata” per le sue “deviazioni sovraniste” emerse con forza nelle ultime tornate elettorali. Sul fronte opposto si collocano quanti denunciano da tempo un assedio finale da parte di Francia, Germania ed eurocrazia: dopo anni di sistematica destrutturazione economico-finanziaria dell’Azienda Italia ad opera di élite tecnocratiche postesi al servizio di governi stranieri e potentati finanziari in quanto politicamente minoritarie nella democrazia italiana. Tenderanno a moltiplicarsi in pari misura sia gli appelli e le spinte ad “arrendersi” definitivamente all’Europa; sia a “resistere-resistere-resistere” sul fronte della cessione di sovranità. Con tutte le conseguenze del caso, in ogni ambito: peraltro in buona parte imponderabili o imprevedibili.
Quanto l’attuale democrazia elettiva italiana sarebbe concretamente disposta a “comprare un’Europa nuova”, ad oggi, da Conte, Prodi, Sassoli e Gentiloni? Quanto la maggioranza “di legislatura” avrebbe la forza di rispondere alla (prevedibile) sollecitazione Ue per una ristrutturazione del debito pubblico italiano politicamente concordata piuttosto che tecnocraticamente imposta dal Mes? Le domande possono essere infinite e non esistono risposte immediate affidabili.
Può essere facile, d’acchito, buttare subito un nome oltre ogni ostacolo: quello di Mario Draghi. Il Sussidiario non ha avuto esitazioni a farlo. Ma lo ha suggerito principalmente all’Europa: perché eviti un terzo e probabilmente definitivo tentativo di suicidio in un secolo. In Europa Draghi sarebbe anche il miglior difensore del suo Paese, perché lo sarebbe in egual misura di tutti i Paesi membri della Ue, unitariamente considerati. Lo ha dimostrato come banchiere centrale di una moneta diffusa in 19 Paesi dell’Unione. E fino all’ultimo giorno ha resistito alle pressioni di tutti e 27 i Paesi dell’Europa. Alle pressioni politiche e a quelle tecnocratiche, soprattutto a quelle che tendevano ad affermare interessi di singoli Paesi su quelli dell’Europa. E si è congedato, Draghi, con un memo tanto chiaro quanto coraggioso: governare l’Europa è essenzialmente una responsabilità da condividere faticosamente.
Non è europeo né un Paese che in Europa pretenda solo di dominare, né un Paese che rifugga dalle proprie responsabilità verso l’Europa. E l’Europa è e resta una democrazia di 500 milioni di europei.