Il nome di Margrethe Vestager- nel suo primo mandato come commissaria Ue all’Antitrust – era diventato molto familiare anche in Italia. Fra il 2014 e il 2019 l’ex Vicepremier danese aveva maneggiato dossier italiani di primo livello politico-mediatico come i salvataggi di Mps e delle Popolari venete.

Ma non solo: aveva ingaggiato partite sempre più calde con i giganti Usa del web. A cavallo del voto europeo di quattro anni fa, Vestager si era quindi ritrovata senza sforzo nel mezzo dei rumor attorno alla successione a Jean-Claude Juncker al vertice della Commissione.



A Bruxelles l’ha poi spuntata Ursula von der Leyen, una donna, come nelle previsioni e negli auspici di molti, ma non Vestager: una liberale di Alde (storico partito euro-legittimista, diverso comunque dai due pilastri Ppe e Pse); esponente di un Paese fuori dall’euro e un po’ troppo nordico-frugale per tenere assieme tutti i Ventisette. A Vestager era comunque andata la sostanziosa conferma al più pesante dei dicasteri Ue, sancita da uno dei tre titoli di “Vicepresidente esecutivo” di von der Leyen. Da allora, però, la sua stella ha brillato meno di prima nei cieli di Bruxelles.



Il Covid e la crisi geopolitica hanno sicuramente contribuito in misura importante a depotenziare il ruolo del “guardiano” europeo della libera concorrenza, anzitutto contro gli aiuti pubblici. Vestager non ha certo rallentato nelle gestione di pratiche strategiche su Google, Apple, Facebook  Ma è stato naturale che il clima di nuova “confrontation” fra Occidente euramericano e Oriente sino-russo abbia reso più politicamente complessa una battaglia che fino al 2020 appariva assai più limpidamente disegnata, anche agli occhi delle opinioni pubbliche del Vecchio continente. Però da qui a considerare Vestager una “quasi ex” negli organigrammi europei/internazionali sembra ancora corrercene. Tanto che – ultimamente – non sono mancati osservatori convinti che il basso profilo assunto dalla responsabile della Concorrenza abbia risposto a una scelta precisa: quella di preparare meglio i passi utili per un nuovo incarico di alto livello. Con almeno due super-poltrone che paiono alla sua portata: quella di presidente della Commissione Ue e quella di Segretario generale della Nato.



Il futuro dei due “top jobs” appare per molti versi intrecciato. Von der Leyen scadrà fra un anno: dopo il nuovo euro-voto, per il quale la campagna elettorale è però già iniziata. Jens Stoltenberg, ex Premier norvegese al vertice esecutivo dell’Alleanza Atlantica, è invece già “in prorogatio” e dovrebbe lasciare l’incarico a breve: in teoria il suo successore dovrebbe uscire  a metà luglio dal vertice Nato di Vilnius. La corsa è tuttavia ancora incertissima per le incognite sulla guerra russo-ucraina: tanto che non viene esclusa un’ulteriore proroga per Stoltenberg, che gode della totale fiducia degli Usa. Ma la crescente problematicità del “fronte interno Ue” – spaccato fra il tendenziale trattativismo franco-tedesco e la fermezza anti-russa dei Paesi est europei – sembra suggerire l’avvicendamento con un uomo di Stato proveniente da un Paese dell’Unione. Di qui la suggestione – anch’essa in progressivo consolidamento – che possa essere la stessa von der Leyen a trasferirsi da Berlaymont – nel centro di Bruxelles – alla periferia nord, nel quartier generale della Nato. Prima di essere designata al vertice della Commissione, “Ursula” era ministro della Difesa in Germania nell’ultimo esecutivo Merkel.

Una simile “operazione von der Leyen” avrebbe un respiro politico indubbiamente alto: mirerebbe a serrare i ranghi fra le due sponde dell’Atlantico, non solo in vista di scenari militari di “guerra lunga” in Ucraina e altrove, ma anche nella prospettiva di ridisegno economico-finanziario della mappa globale (basti pensare alla “querelle” in corso fra Usa e Ue sugli aiuti di stato alle imprese per la transizione verde). In estrema sintesi: chiamare la numero uno (tedesca) dell’Ue al vertice della Nato significherebbe neutralizzare sul nascere il dualismo crescente e già visibile fra i due “super-Stati” occidentali. Vorrebbe dire blindare l’Europa all’America nel Grande Reset geopolitico avviato dalla pandemia e poi accelerato dall’aggressione russa all’Ucraina (e dall’escalation cinese attorno a Taiwan).

Se il toto-Nato sta prendendo forma come “Stoltenberg-2 o von der Leyen o X”, può essere utile partire dall’ipotesi che i 31 Paesi membri debbano infine selezionare un terzo nome: mediando fra i due profili per qualche ragione entrambi alla fine impraticabili. E come negare, in questo caso, la credibilità di una candidatura Vestager? Classicamente scandinava per gli organigrammi internazionali: ma cittadina Ue. Sperimentata nel rapporto con gli Usa sul piano strutturale del business e dell’innovazione tecnologica. Abituata a trattare con i grandi gruppi industriali che – prevedibilmente – saranno chiamati a implementare il riarmo europeo, fra Stati e mercati. Non da ultimo donna, quando sembra l’ora di una segretaria “rosa” anche a capo dei generali Nato: ma una donna non così guerrafondaia e filoamericana come un’altra pre-candidata, la Premier estone Kaja Kallas.

Ipotizziamo che invece a Stoltenberg succeda “Ursula”, azzerando ogni possibilità teorica di un suo secondo mandato a Bruxelles. All’Ue non sembrano profilarsi grosse difficoltà per qualche mese di eventuale gerenza da parte del  primo Vicepresidente, il socialista olandese Frans Timmermans, A meno che quest’ultimo – oggi titolare della strategia di transizione energetica e digitale Ue – non voglia o debba candidarsi come capolista per il Pse. Ed è su questo versante ancora fluido che il nome di Vestager torna a essere al centro di indiscrezioni e congetture.

Nel 2024, anzitutto, la democrazia istituzionale dell’Ue è attesa a ulteriori passi avanti. Il Presidente della Commissione dovrebbe essere il “candidato di punta” del partito che conquisterà più seggi nel nuovo Euro-parlamento; e la Commissione stessa dovrebbe poter contare su una solida e identificabile maggioranza politica a Strasburgo. Sarà da vedere quanto il ruolo ancora determinante del Consiglio dei Capi di Stato e di governo rispetterà questo principio evolutivo (ancora nel 2019 non è stato così). La campagna elettorale ha però preso le mosse all’interno di questo perimetro di regole del gioco. Il Ppe (oggi il maggior partito Ue) ha nei fatti già individuato il suo “spitzenkandidat” nella maltese Roberta Metsola, attualmente presidente dell’Euro-parlamento. E il leader Ppe (il bavarese Manfred Weber) ha preso contatto con la premier italiana Giorgia Meloni (leader di Europei conservatori e riformisti) per la costruzione di una maggioranza di centrodestra: che appare sulla carta capace di una maggioranza relativa, ma non assoluta.

Sul fronte opposto ferve il cantiere fra Pse, Verdi e forze minori della sinistra: anche qui senza possibili ambizioni dirette di maggioranza assoluta; ma anche – al momento – senza leadership definita, dopo l’inattesa sconfitta in patria della Premier finlandese Sanna Marin. In questo quadro è sempre più evidente il probabile ruolo di ago della bilancia per il liberaldemocratici di Alde. I quali non hanno ancora stretto sul loro “spitzenkandidat”. Nulla vieta che possa essere Vestager: a quel punto carta pesantissima in virtù del curriculum Ue. Ovvio che sarebbero poi gli esiti elettorali a orientare la ricerca di una coalizione e la stessa fisionomia dell’Esecutivo. Ma il nome della tecnocrate danese non perderebbe interesse anche nel caso – non improbabile – che fra Strasburgo e Bruxelles prenda forma una “legislatura ri-costituente” e quindi una “grandissima coalizione”.  All’opposto di quanto avvenuto nel 2019: quando la stessa von der Leyen – priva dei voti dei socialdemocratici tedeschi – dovette ricorrere ai voti “sciolti” degli europarlamentari M5S in cambio del pressing europeo a favore del ribaltone italiano fra Conte-1 e Conte-2.

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