Pare che all’Unione Europea non sappiano più che cosa inventare per fermare il nemico. I terroristi islamici? No, i russi! Anche quei “simpatici” turisti spendaccioni che almeno in parte con i loro soldi ci ripagano quello che il loro Stato ci fa pagare in più per il gas.

Lo sanno bene tanti albergatori e negozianti per i quali “Arrivano i russi!” non è un grido di terrore, ma l’annuncio di possibili buoni affari. E non parlo dei grandi oligarchi, ma dei piccoli-medi imprenditori e commercianti che, approfittando della buona salute del rublo, hanno deciso di sfidare l’Occidente magari per portarsi a casa qualche bel capo di abbigliamento che, a causa delle sanzioni, è difficile trovare in patria.



Se non ci credete fate un giro, ad esempio, per Corso Buenos Aires a Milano e, credetemi, se sentite che molti parlano in russo, non è proprio detto che siano ucraini.

C’è poi il rischio, anzi la certezza, che il blocco dei visti dell’Ue provochi una risposta identica da parte della Federazione Russa. Addio Tetjakovskaja ed Ermitage, addio Bolshoj e le passeggiate per la Arbat. E quelle belle icone che, oltre ad essere belle, costituiscono, secondo alcuni, un buon investimento? E poi, per uscire, finalmente, da questa logica bassamente commerciale, pensate che sia giusto interrompere i rapporti, intendo quelli umani, con tanta gente che, intossicata dalla propaganda del regime, potrebbe trovare qui un’altra visione delle cose?



Già, ma qui sta il problema. Che cosa offriamo loro oltre a una non gratuita ospitalità? Quali iniziative stiamo proponendo, ad esempio, perché qui possano incontrarsi con i tanti ucraini che stiamo ospitando, ascoltare le loro storie, ben diverse da quelle che raccontano la Pravda e la Izvestija?

Certo quando il Venerdì Santo il Papa invitò due donne, una ucraina e l’altra russa, a portare la stessa croce ci fu una reazione scandalizzata da parte di Kiev. Però si può riprovare, sempre che alle donne russe non venga negato il visto d’ingresso e, addirittura, non si pensi all’espulsione di quelle che vivono da noi da tempo. Forse esagero, ma non vi sembra che certe decisioni siano comprensibili (e per me non del tutto) solo in tempo di guerra? Già, un tempo di guerra in cui, quest’inverno, tutta l’Europa, Russia compresa (perché fino a prova contraria anche lei è in Europa), si prepara a un tempo di comune sofferenza.



Il martirio dell’Ucraina, le migliaia di morti da entrambe le parti, le risorse sprecate alla faccia del bisogno dei poveri, sembrano non scalfire l’orgoglio di Putin ma, forse, sembrano anche non farci seriamente interrogare sulle nostre responsabilità.

Che bei tempi, quando anche solo la minaccia di una scomunica bastava a fermare qualche sovrano in vena di pericolose avventure. Ma si sa, oggi viviamo nel tempo della secolarizzazione, nel quale è già stata sdoganata, anche da noi preti, la paura dell’Inferno.

L’Inferno ce lo costruiamo qui e finché non ci tocca da vicino, finché in questo Inferno ci vanno gli altri, in fondo possiamo tirare avanti.

Comunque in previsione dell’inverno, non dell’Inferno, personalmente sono andato nell’armadio a cercare i vestiti pesanti che mettevo nella Siberia asiatica negli anni 90 quando fuori c’erano -40 gradi e dentro, una volta anche per due giorni, non funzionava il riscaldamento cittadino centralizzato.

Chiedo scusa agli animalisti, ma mi sa tanto che dovrò ricorrere anche a quella pelliccia che era d’obbligo in Università se non si voleva morire di quella forma di broncopolmonite che ancora non conosceva il Covid, ma poteva mandarti nell’aldilà e non necessariamente in Paradiso.

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