Il 2024 rischia di essere l’anno più tumultuoso d’Europa. A livello politico, si intende (o almeno si spera), e non solo perché le prossime elezioni del 6-9 giugno rischiano di innescare una campagna elettorale di grande portata e successivi profondi cambiamenti a Bruxelles, ma perché è già in queste settimane che si decidono le candidature e i possibili schieramenti.
La prima mossa è stata l’annuncio di Charles Michel – presidente del Consiglio europeo – di candidarsi a giugno col Mouvement Réformateur (Movimento Riformatore) del Belgio il che comporterà – in caso di sua elezione parlamentare e stando alle norme in vigore – la possibilità di un interim al suo posto del primo ministro ungherese Viktor Orbán, il cui Paese assumerà la presidenza di turno del Consiglio a luglio.
Un’ipotesi che ovviamente desta preoccupazione in molti paesi UE e che sicuramente proprio non piace a Kiev, viste le chiare posizioni filorusse di Budapest e l’avversione del governo ungherese al dare sostegno alla lotta ucraina, soprattutto in sede europea.
“Ho deciso di candidarmi alle elezioni europee del 2024”, ha annunciato Michel in un’intervista ai media belgi Le Soir, La Libre e De Standaard e “se vengo eletto, prenderò il mio posto”.
Di fronte a questa decisione, i leader dell’UE dovranno decidere se concordare rapidamente un nuovo modo per nominare un successore per il suo posto vacante entro il 1° luglio, quando l’Ungheria assumerà la presidenza semestrale a rotazione del Consiglio. In caso contrario, le regole comunitarie prevedono infatti che l’incarico vada proprio allo Stato membro che detiene la presidenza di turno per i sei mesi immediatamente successivi alle elezioni europee del 2024.
Uno scenario che la maggior parte degli altri Paesi vorrebbe disperatamente evitare, date le crescenti tensioni tra di loro e il premier ungherese, ma in ogni caso è evidente che lo scenario del post-Michel disegna un nuovo tassello di incertezza che va ad aggiungersi ai tanti nodi che oggi sono sul tappeto e soprattutto ai dubbi sul sostegno occidentale a Kiev che ha avuto in Michel un “falco” di prima grandezza.
Va ricordato che il governo di Zelensky aspetta ancora di ricevere un pacchetto da 50 miliardi di euro dall’UE, dopo che proprio Budapest si è messa di traverso e ha bloccato i fondi, mentre è di ieri la notizia che la Danimarca ha rimandato la fornitura di F16 all’Ucraina.
Oltreoceano manca ancora l’ok del Congresso degli Stati Uniti ad altri 50 miliardi di dollari in aiuti per Kiev, tra incertezze sempre maggiori e una pace che sembra sempre più lontana, anche perché nessuno ha il coraggio di affrontare seriamente il problema di crearne le condizioni.
I media italiani intanto si sono scatenati: La Stampa di Torino parla a tutta pagina “dello spettro di Orbán”, forse dimenticando che in fondo pure il premier ungherese è stato democraticamente eletto dai propri cittadini. Mentre c’è chi spinge alla prudenza, come il premier belga Alexander De Croo: “il nostro ruolo è favorire il compromesso, non imporremo una soluzione”; altri sottolineano una questione che riguarda l’opportunità stessa della mossa di Michel: un presidente del Consiglio europeo che si appresta a condurre una energica campagna elettorale in patria può garantire il necessario equilibrio istituzionale in un momento così delicato?
Resta sullo sfondo la vera questione: come andranno le elezioni di giugno? Perché troppi media vedono Orbán come una sorta di despota usurpatore, ma tendono a dimenticare che il prossimo parlamento europeo potrebbe avere altri equilibri ed altre maggioranze sotto la pressione di una valanga di voti “euroscettici”.
Tutto dipenderà alla fine dalla posizione del PPE, ma è chiaro che – stando ai risultati nei vari Paesi della UE chiamati al voto per elezioni politiche interne negli ultimi anni – rispetto al 2019 sembrano esserci decine di milioni di europei che non si sentono più rappresentati a Bruxelles, dove peraltro nessuno si preoccupa o si è preoccupato della loro opinione su tanti temi, dall’energia alla politica estera, dai diritti gender all’economia green.
Ecco perché il voto di giugno sarà per una volta fondamentale e probabilmente molto più partecipato del passato, quando le elezioni europee non godevano di grande attenzione ed i votanti erano sempre relativamente pochi.
Quest’anno sarà tutto diverso e d’altronde anche sul piano interno a cinque mesi dal voto è già in prima pagina la questione della candidatura o meno di Giorgia Meloni con inevitabili ripercussioni per tutti, sia all’interno della maggioranza sia per l’opposizione. Se la Meloni si candida, cosa faranno Schlein, Salvini, Tajani? Perché non c’è dubbio che la partecipazione diretta della leader di Fratelli d’Italia potrebbe portare ad una crescita o almeno ad un consolidamento del suo partito a spese degli alleati, pur sapendo che sarebbe una candidatura di facciata, vista l’incompatibilità con il seggio che la Meloni ha già a Montecitorio; il che, in passato, non è però mai stato un ostacolo alla partecipazione al voto europeo dei leader, Berlusconi docet.
Sarà comunque una lunga campagna a cui mancava solo la ciliegina del post-Michel per arroventare il clima, anche anche perché appare difficile cambiare le regole del gioco mentre si sta giocando la partita. Se Orbán venisse infatti in qualche modo emarginato con un voto a maggioranza fissando nuove regole per il subentro, chi potrebbe poi accusare l’Ungheria se in futuro cominciasse a fare ostruzionismo bloccando ogni decisione comunitaria dove tuttora necessità l’unanimità degli Stati?
Gli ungheresi avrebbero sempre e comunque tutti i torti? Anche questa questione ha un suo valore, perché l’UE è scossa dal profondo ed è proprio dal voto di giugno che potrebbe venire un temuto tsunami per l’euroburocratico potere che di fatto si è progressivamente consolidato a Bruxelles.
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