Ed alla fine arrivò l’intesa. O meglio una tentazione di accordo. Dopo anni di rincorsa del maggioritario, di bipolarismo forzato, di quorum al rialzo, la democrazia italiana si ritrova sull’orlo di un ampio accordo per ridurre la percentuale di voti necessari per andare a Bruxelles. Dal 4 al 3%. Un punto di elettorato vale relativamente poco in termini assoluti, ma ha un effetto importante sui seggi che si attribuiscono. Più liste vanno oltre il quorum, più parlamentari si sottraggono ai partiti maggiori.
Ed allora perché la maggioranza è d’accordo? Semplice. Per mandare a Bruxelles meno socialisti e più verdi, liberali e comunisti. Se infatti la Meloni sa di poter aumentare il numero di eletti rispetto a cinque anni fa, grazie alla sparizione dei 5 Stelle, se la Lega si attende di rimanere all’opposizione in Europa, e perciò mira a confermare il dato delle politiche o poco più, il Pd ne perderà tanti di eletti, se la cosa riesce.
Sia perché oggi non ha il consenso di 5 anni fa, sia, e soprattutto, perché con lo sbarramento al 3% entrerebbero verdi e comunisti (quelli di Santoro e de Magistris), Calenda e Renzi con la sua lista (e la possibile elezione personale come capolista ovunque), tutti voti tolti ad Elly Schlein. Così il Pd non avrebbe in Europa la possibilità di contare tra i socialisti come conta ora. E le maggioranza alternativa, con i socialisti europei meno forti, rimetterebbe in gioco la Meloni e Forza Italia.
L’operazione piace ai cespugli di sinistra, che da anni mancano l’elezione europea, oltre che ai leader moderati europei che vogliono dettare legge contando sulla debolezza dei socialisti. Perciò l’accordo è vicinissimo, dando soddisfazione a tutti.
La partita apre però un tema più ampio e cioè cosa fare delle democrazia italiana. Con la possibile introduzione del premierato che la Meloni vuole (d’accordo tutto il centrodestra più Italia viva) un quorum più basso potrebbe aiutare i partitini a non alzare le barricate.
Perciò se ci sarà l’accordo non si potrà che iniziare a ragionare della prossima legge elettorale e trovarsi almeno su quorum più bassi è un’ottima occasione per aggredire il Pd alle fondamenta, foraggiando i partiti più piccoli, da Calenda a Potere al Popolo, che animano le frastagliate coste della sinistra italiana. Del resto portare in Europa i verdi, Calenda, Renzi e forse Santoro toglie fiato a chi vede nella Meloni una leader che non ama la rappresentanza e obbliga Elly ad ingoiare con il sorriso il boccone amaro di una battaglia ancora più complicata per lei. A conti fatti il Pd potrà al massimo riconfermare il numero degli eletti, a fronte di un aumento degli eleggibili (che passato da 73 a 76 per effetto della Brexit). Con il rischio però di avere molti posti in meno dopo che la riduzione dei parlamentari ha lasciato a casa tanti aspiranti leader nazionali che si trovano oggi ingolfati in un partito che non ha la forza di dare, senza governo, spazio a tutti.
Perciò non è detto che qualcuno del Pd non si presti a dare i suoi voti locali a Renzi, Calenda o ai verdi sperando che, con un minimo aiuto, scatti un secondo o terzo seggio indebolendo così ancor di più Schlein e i suoi.
La Meloni sa invece che a destra Alemanno e la sua compagnia di reduci non avrà spazio e l’alleato migliore per il futuro (Matteo Renzi), se eletto, si sposterà definitivamente fuori dal campo della sinistra anche nel lessico. La sua lista, che conterrà la parola Centro, sarà un inno al moderatismo ed alla lotta contro gli ex amici del Pd.
I Cinque stelle invece non saranno toccati dalla modifica, che contrasteranno, visto che non li tocca, ma sanno che questa è l’ultima chiamata. Se non confermeranno nel Mezzogiorno la loro forza, dopo l’abolizione del reddito di cittadinanza nulla potrà salvarli. Come si diceva, passare dal 3 al 4% è poca cosa in termini assoluti: circa 280mila voti su 28.000.000, ma in politica sono i battiti di farfalla che fanno scatenare gli uragani. E quello all’orizzonte, se l’accordo ci sarà, pare sia uno di quelli brutti per Elly Schlein. Tempesta seria. Per marinai esperti.
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